giovedì 29 settembre 2011

Google a Gerusalemme

(fonte: Sette-Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Dopo quattro anni il governo israeliano e Google sono arrivati ad un accordo. Google infatti prossimamente potrà attivare il servizio Street View a Gerusalemme, cioè la mappatura tramite foto e fruibile on line di tutte le vie della città. Il governo di Israele ha sciolto la sua riserva su questa iniziativa dopo che ha ottenuto tutte le garanzie sulla sicurezza; non a caso è vietato ai turisti fare fotografie dall’aereo. Non tutti gli abitanti di Gerusalemme però hanno accolto la notizia positivamente. Ad esempio gli ebrei ortodossi del quartiere di Mea Sharim che si oppongono fermamente alla riproduzioni di immagine della loro zona, e ritengono i turisti che si addentrano al loro quartiere degli intrusi, e spesso gli “accolgono” a sassate. Invece il comune di Gerusalemme vede in Google Street View un servizio utile per i turisti. Israele è il primo paese del Medio Oriente in cui verrà attivato tale servizio.
RDF

lunedì 26 settembre 2011

La mancanza di Obama

A cura di Roberto Di Ferdinando

Durante il discorso per la 66esima Assemblea Generale dell’Onu a New York, il 21 settembre scorso, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel commentare l’iniziativa ONU-Nato in Libia ha ringraziato tutti i paesi che hanno composto il Club dei Volenterosi, escludendo però dall’elenco e quindi dai ringraziamenti solo l’Italia. Molti analisti, più nazionali che internazionali, hanno interpretato questa voluta dimenticanza quale il desiderio dell’amministrazione USA di non dare una sponda, un appoggio a Silvio Berlusconi al centro di più questioni giudiziarie, sostenendo il pensiero diffuso e condiviso in Occidente che la compagine di centro-destra sia inadeguata a guidare una paese membro del G-8, oppure che il non ringraziamento all’Italia sia stato voluto da Obama per ricordare quanto malumore provocarono negli ambienti di Washington, all’inizio della rivolta libica, le titubanze italiane nello schierarsi militarmente contro Gheddafi , ritenuto da Roma un’”amico” (Obama non ha mai ricevuto alla casa Bianca, ufficialmente, Silvio Berlusconi) . Tutte queste analisi sono plausibili e condivisibili, forse anche corrette, ma ciò non esclude, ovviamente è solo la mia opinione, che Obama abbia mancato di garbo diplomatico. Infatti l’Italia sebbene in ritardo ha fatto il suo dovere, essendo il terzo paese per numero di missioni nel cielo libico, inoltre ha dato la disponibilità delle proprie basi ed ha rasentato una crisi di governo per partecipare alla missione. Al di là delle responsabilità e delle incapacità di Berlusconi, in Libia sono intervenute le Forze Armate italiane, che rappresentano, in guerra, ma anche nel periodo di pace, l’Italia e la sua democrazia. L’intervento il Libia è stato autorizzato da scelte di politici eletti democraticamente; nonostante le mille difficoltà che sta attraversando il paese, gli italiani, da decenni fedeli alleati degli USA, si sono assunti l’impegno di partecipare alla missione, pur confrontandosi quotidianamente con la mancanza di soldi pubblici, ed ancora i soldati italiani sono presenti ed impegnati in Libia. Oggi il nostro paese vive un tragico periodo, di cui in parte ne è responsabile questo governo, lo si colpevolizzi, ma non si coinvolga l’Italia, e le si renda il giusto onore, non accettiamo lezioni, sgarbate, da nessuno.
Viva l’Italia.
RDF

mercoledì 21 settembre 2011

L'appeasement

Testo di Roberto Di Ferdinando

Nella seconda crisi irachena la scelta diplomatica dei governi di Francia e Germania di non appoggiare gli Stati Uniti nella guerra preventiva all'Iraq, ma di ricercare invece una via pacifica per il disarmo del regime di Bagdad, fu paragonata, da alcuni analisti politici, all'atteggiamento di conciliazione e compromesso (appea-sement) adottato dalla Gran Bretagna negli anni trenta, nei confronti delle iniziative aggressive della Germa-nia di Hitler e dell'Italia di Mussolini.
Il termine inglese di appeasement quindi, dopo molti decenni in cui era rimasto relegato nei testi di storia, ritornò d'attualità. In realtà però cosa è stato l'appeasement? E perché nel tempo ha assunto un valore e-stremamente negativo?
Un'analisi semplicistica potrebbe farci tradurre la parola appeasement come distensione, ma ricorrendo all'Oxford Dictionary entriamo in possesso di una definizione molto più complessa: to buy off an aggressor by concession usually at the sacrifice of principles (tacitare l'aggressore con concessioni, sacrificando i prin-cipi). Il termine contiene un riferimento ad un atteggiamento perdente, un rimando ad una posizione di debo-lezza che costringe a venire a patti con l'avversario. Se inoltre collochiamo quest'atteggiamento nel periodo tra le due guerre, abbiamo chiaro che in quegli anni la Gran Bretagna fu costretta ad affrontare una situazio-ne di continua crisi internazionale, consapevole della propria posizione di fragilità, ereditata dalla fine della Prima Guerra Mondiale. Si rendeva così necessario per gli ambienti politici britannici l'adozione di una stra-tegia di politica internazionale che puntasse, non allo scontro militare, a cui il paese era impreparato, ma al dialogo ed al compromesso con quelle nazioni che potevano rappresentare una minaccia per la pace in Eu-ropa e per l'Impero. Per Londra infatti era indispensabile avere equilibrio e stabilità nel vecchio continente per concentrarsi nella difesa dell'Impero da cui dipendeva la sopravvivenza economica della Madrepatria. L'Impero comprendeva estesi possedimenti in Asia, Africa, Oceano Atlantico e Pacifico. La difesa di questi era garantita dalla marina militare britannica che controllava Gibilterra, Malta, Suez ed era presente nel Mar Nero.
La nascita dell'appeasement avvenne così nel momento in cui la Gran Bretagna avvertì la propria debolezza e la contemporanea presenza di minacce per i propri interessi in Europa e nel mondo.
Appeasement negli anni venti?
Alcuni storici individuano l'avvio di questa politica britannica di conciliazione già negli anni venti, partendo dalla constatazione che la Gran Bretagna, seppur vincitrice, usciva pesantemente indebolita economicamen-te e militarmente dalla Prima Guerra Mondiale. Durante il conflitto era dovuta ricorrere ai prestiti degli Stati Uniti che andavano ora rimborsati; lo sforzo militare era stato ingente e si trovavano molte difficoltà finanziare per riammodernare e ricompletare i settori della difesa. La recessione internazionale inoltre, nella prima metà degli anni venti, era stata affrontata con un'errata politica monetaria (rivalutazione della sterlina) che aveva reso i prodotti inglesi troppo cari, gettando in crisi ampi settori industriali, con gravi conseguenze sociali. Contemporaneamente a queste difficoltà interne corrispondeva in politica estera una certa disponibilità del governo di Londra a fare concessioni alla Germania ed all'Italia. Nel gennaio 1923 l'occupazione militare del bacino carbosiderurgico tedesco della Ruhr da parte della Francia, come punizione per il mancato rispetto da parte della Germania delle riparazioni di guerra, previste dal trattato d pace di Versailles del 1919, spinse Londra a prendere le difese di Berlino. Definì l'operazione un grave errore ed accusò la Francia di generare ulteriori divisioni tra gli europei. La Gran Bretagna colse l'occasione per condannare il sentimento francese di révanche contro Berlino, che era stato alla base del duro trattato di pace imposto alla Germania.
Oppure nell'ottobre 1925 quando la Gran Bretagna svolse la funzione di garante del Trattato di Locarno. Il Trattato prevedeva l'accordo tra la Francia e la Germania di non modificare con la forza i confini (Alsazia e Lorena) fissati sempre a Versailles. Ma il Ministro inglese, il conservatore Austen Chamberlain, non fece pressioni su Berlino perché confermasse ufficialmente i propri confini ad est, con la Cecoslovacchia e la Polonia, con quegli stessi stati contro i quali, tredici anni più tardi, si abbatteranno le rivendicazioni territoriali di Hitler.
Riguardo l'Italia di Mussolini il governo conservatore presieduto da Stanley Baldwin appoggiò Roma presso la Società delle Nazioni (l'associazione di stati sorta a Versailles per mantenere la pace nel mondo) contro la Grecia nella crisi di Corfù. La crisi aveva come pretesto l'uccisione, in un attentato sul confine greco-albanese, di alcuni delegati italiani, componenti di una commissione internazionale; ma trovava origine nell'espansione dell'influenza italiana in Albania. Mussolini come rappresaglia bombardò ed occupò l'isola greca. La Gran Bretagna, che insieme alla Francia controllava politicamente l'organizzazione di Ginevra, di fronte alla minaccia italiana di abbandonare la SdN riconobbe i diritti di riparazione dell'Italia. Mussolini infatti riscontrava una certa stima a Londra, gli era riconosciuta la capacità di aver riportato l'ordine sociale in Italia, sebbene con strumenti non democratici (in quegli anni gli inglesi ritenevano che qualsiasi male è minore del fermento sociale). Questa stima sarà alla base dei buoni rapporti tra Gran Bretagna ed Italia fino alla seconda guerra mondiale, con l'eccezione della parentesi della crisi etiopica del 1935. Sebbene poi già negli anni venti fu proprio la Gran Bretagna ad aprire le porte dell'Africa al regime fascista, infatti è del 1925 il riconoscimento britannico di interessi economici italiani in Etiopia e della cessione di Jarabub sul confine tra Egitto e Libia.
Questi avvenimenti non possono però farci credere che, già negli anni venti, la Gran Bretagna potesse pen-sare all'appeasement. Tali scelte britanniche non preludevano ad una strategia precisa di politica estera, si presentavano invece come scelte del momento, in relazione a situazioni diverse e particolari. L'Italia e la Germania non rappresentavano così una minaccia per Londra ed il suo Impero. Mussolini era infatti impe-gnato nella fascistizzazione dell'Italia ed in politica estera le ambizioni imperialiste del regime erano ancora lontane, mentre la Germania, uscita dalla Prima Guerra Mondiale sconfitta, era la debole Repubblica di Weimar, assalita da una grave crisi istituzionale ed economica. Potremmo invece ritenere che l'atteggiamen-to britannico nell'appoggiare Berlino e nel limitare il desiderio di vendetta francese nei confronti della Germa-nia, avesse come scopo l'eliminazione di motivi d'instabilità nel cuore dell'Europa, in un momento in cui gli interessi britannici erano rivolti al di fuori del vecchio continente. Nell'Oceano Pacifico la Gran Bretagna ave-va infattiun'alleanza dal 1902 con il Giappone. Il Giappone però era riuscito, durante la Prima Guerra Mon-diale, ad aumentare il controllo su alcune importanti zone strategiche (Corea e Siberia orientale), minaccian-do gli interessi economici degli Stati Uniti (principio della porta aperta). Londra, su consiglio di Washington non rinnovò l'alleanza con Tokyio, ma la sostituì con un'accordo militare-navale con gli Stati Uniti. Inoltre per limitare ulteriormente l'azione giapponese nel 1922 fu firmato a Washington un trattato per il disarmo navale che dette per oltre un decennio la supremazia navale nel Pacifico agli Stati Uniti ed alla Gran Bretagna.
L'ascesa di Hitler
Corretto invece è collocare la nascita dell'appeasement britannico intorno alla metà degli anni trenta. In quel periodo Londra stava cercando di uscire dalla crisi economica ereditata dalla depressione americana del 1929. Gli stretti rapporti finanziari con gli USA ed una cattiva gestione dell’emergenza economica avevano accentuato nel paese i fenomeni recessivi, provocando alta disoccupazione e inevitabili tensioni sociali.
Contemporaneamente in campo europeo la nascita di una Germania forte, in un sistema politico internazio-nale incerto e debole, poteva rappresentare un elemento di preoccupazione. Nel 1935 la Germania non era più la debole Repubblica di Weimar ed era percepita come una possibile minaccia.
Eppure fino ad allora l’ascesa al potere di Hitler era stata interpretata dalla Gran Bretagna in maniera positi-va, in quanto rappresentava la garanzia per la formazione di un governo forte e stabile, in una Germania de-bole ed in crisi, favorendo la ripresa economica tedesca in modo tale da opporsi all’influenza francese sul continente e creando un equilibrio in Europa. Londra aveva giudicato il Trattato di Versailles eccessivo nei riguardi di Berlino e aveva manifestato la disponibilità ad una sua modifica. Infine negli ambienti politici d’oltremanica si elogiava il carattere anticomunista propagandato dal nazionalsocialismo tedesco, ma anche dal fascismo italiano; in Gran Bretagna, attraversata nuovamente da gravi difficoltà economiche e tensioni, infatti ancora vivo era il ricordo della crisi sociale suscitata dallo sciopero delle Trade Unions del 1926 che aveva paralizzato il paese per quasi un anno e diffuso la paura per il bolscevismo.
Nel 1935 però i programmi di Hitler per una grande e potente Germania e la nazificazione del paese inizia-rono a spaventare Londra. Il nuovo Primo Ministro, il conservatore Baldwin, auspicava quindi l’instaurazione di un clima di pacificazione e d’equilibrio fra i vari soggetti europei, in modo tale da poter lasciare la Gran Bretagna libera di occuparsi dei propri possedimenti al di fuori dell’Europa. Londra però non doveva preoc-cuparsi solo della Germania in Europa, ma anche delle aspirazioni italiane nel Corno d'Africa, porta d’accesso ai Dominions dell’Asia. Non solo, dal 1931 la presenza militare giapponese in Cina si faceva sem-pre più pressante; anche l’Asia era minacciata.
Sulla carta la Gran Bretagna controllava bene il canale di Suez grazie ai mandati amministrativi sulla Pale-stina, aveva inoltre basi militari in Iraq, Palestina, Transgiordania (attuale Giordania) ed Egitto. Era anche presente sulla costa orientale del Mar Rosso, grazie alla sua politica di influenza in Arabia ed il controllo di Aden. Ma in realtà questo controllo non era totale. Le navi erano vecchie, la Marina spendeva tutti i soldi per mantenere e difendere la base navale di Singapore che era fondamentale per il controllo dei domini dell'E-stremo Oriente. Il Mediterraneo rimase quindi un punto centrale proprio in un momento di debolezze. La stra-tegia diventava quella di non mantenere la flotta nei punti chiave dell'Impero, perché non c'erano risorse per farlo, ma di spostarla rapidamente per le necessità. La strada Mediterraneo-Suez-Mar Rosso divenne allora fondamentale per arrivare a Singapore, che fra le due guerre si trasformò in una priorità assoluta.
Il governo britannico non poteva intervenire con la propria flotta contemporaneamente in tutte le aree impe-riali per contrastare le varie minacce. Si rendeva così necessario giungere ad un compromesso con gli av-versari. L’appeasement diventava una strategia obbligata.
Dal febbraio del 1932 a Ginevra si prolungavano lentamente i lavori della Conferenza per il disarmo genera-le. La Germania chiedeva la fine degli obblighi militari imposti dal trattato di Versailles e rivendicava il princi-pio del Gleichberectingung, cioè la parità dei diritti tedeschi in materia di armamenti. Il Cancelliere tedesco Bruening che doveva affrontare l'opposizione nazista interna aveva bisogno di un successo; anche se la Germania stava già attuando segretamente un riarmo grazie agli accordi con l'URSS, avviati nel 1921, che consentivano a reparti tedeschi di sperimentare nuove armi e compiere esercitazioni sul suo territorio. Se gli inglesi ed americani non erano contrari a riconoscere il riarmo tedesco, i francesi si opposero invece in ma-niera decisa. I contrasti riguardo il riarmo tedesco durarono fino all'ottobre del 1933, quando Hitler, salito al potere nove mesi prima, decise di abbandonare la conferenza e la Società delle Nazioni. Non solo, nel mar-zo del 1935 Hitler annunciò la ripresa della coscrizione militare obbligatoria. Questa violazione avrebbe potu-to dare il via libera a Francia, Italia e Gran Bretagna per attuare severe reazioni, compreso l'uso della forza; ma si ebbero solo dure denunce, ogni paese infatti continuò le proprie azioni unilaterali per perseguire i pro-pri interessi nazionali. Hitler approfittando delle divergenze tra i suoi antagonisti europei avanzò agli inglesi la proposta di un disarmo navale che avrebbe stabilito che la Germania avrebbe potuto costruire naviglio da guerra per una stazza sino al 35% di quella posseduta alla Gran Bretagna. La percentuale poteva salire al 45 per i sottomarini, con la possibilità di superare questo limite in modo unilaterale dopo un colloquio con il governo britannico. Nel 1935 la Gran Bretagna firmando un patto navale con la Germania, manteneva la su-premazia della flotta britannica. Londra non potendo potenziare la propria forza navale imponeva a quella tedesca un limite, ma riconosceva così il diritto a Berlino di riarmarsi. La soddisfazione della Gran Bretagna di aver ottenuto un risultato positivo, non poteva nascondere le preoccupazioni degli altri paesi, che vedevano, dopo la coscrizione obbligatoria decisa unilateralmente dalla Germania, il potenziamento militare di Hitler avvallato dal governo di Londra.
Minaccia italiana
Inaspettata fu certamente l’operazione militare italiana in Etiopia. Londra era a conoscenza degli interessi di Roma in Africa, ma in quel momento si credeva che le minacce reali per le colonie provenissero non dall'Ita-lia, ma dalla Germania e dal Giappone. Il governo di Tokyo infatti dal 1931 combatteva una guerra non di-chiarata contro la Cina, che lo aveva portato ad occupare la Manciuria ed ad uscire dalla SdN, mentre nel 1935 aveva ripudiato gli accordi di Washington del 1922, puntando al riarmo navale.
L’iniziativa italiana andava a interessare una zona strategica per i britannici, eppure la Gran Bretagna non sembrò adottare come risposta un atteggiamento di aperta ostilità. Infatti la SdN, controllata da Londra, e-manò sanzioni che però non comprensero l'embargo petrolifero all'Italia, inoltre il governo britannico non si preoccupò di chiudere il canale di Suez alle navi italiane. Tale scelta era giustificata dal fatto che Londra pensava di risolvere la questione tramite un accordo con l’Italia, il quale poteva disciplinare la presenza di Roma nel Corno d’Africa. L’interesse britannico ad un’intesa con Roma risiedeva nel fatto che il regime fa-scista, impregnato di imperialismo e desideroso di ottenere successi prestigiosi in campo internazionale, rappresentava un pericolo in un'area così importante come quella del Canale di Suez. Inoltre in un periodo di tensioni internazionali (il Giappone in Asia, la Germania in Europa) era bene tenere sotto controllo almeno l'Italia. Ma l'accordo per responsabilità comuni non fu concluso; l'Italia con enormi difficoltà occupò l'Etiopia e la Gran Bretagna vide iniziare a saltare il precario equilibrio internazionale.
Infatti ad approfittare di questa crisi internazionale fu la Germania. L’intervento italiano in Etiopia e la scarsa opposizione della SdN convinse Hitler a ritenere l’operazione africana come il risultato di un’intesa italo-britannica per formare un fronte antitedesco. Per risposta Hitler attuò la già da tempo prevista rimilitarizza-zione della Renania. Il Trattato di Versailles aveva previsto che su una fascia del territorio germanico profon-da 50 km dalla riva sinistra del Reno il governo di Berlino non avrebbe potuto far stazionare proprie truppe. La violazione di questi articoli avrebbe permesso a Gran Bretagna e Francia la difesa attiva, cioè intervenire militarmente in territorio tedesco per respingere il riarmo della regione. Il 7 marzo 36.000 soldati tedeschi rioccuparono la Renania. Britannici e francesi sebbene autorizzati non intervennero convinti che Hitler avesse impiegato nell'operazione oltre 100.000 soldati. Londra non voleva provocare uno scontro militare, dagli incerti risultati, per impedire a Berlino di rientrare in possesso di una parte del proprio territorio. Per la prima volta la Germania alterava con la forza l'ordine impostole 15 anni prima a Parigi. Così Hitler di fronte alla mancata reazione dei garanti di Versailles si sentiva più forte ed autorizzato a continuare la sua politica d'e-spansione. Toccava adesso ai confini ad est.
Instabilità in Europa
La Guerra Civile Spagnola portò il Mediterraneo al centro delle preoccupazioni britanniche. La partecipazione in Spagna di “volontari” fascisti italiani allarmò Londra, la quale intravedeva in tale iniziativa un interesse italiano, poi dimostratosi non reale, per il controllo delle coste meridionali spagnole e delle isole Baleari. Per la Gran Bretagna fu necessario; per tutelare i propri interessi nella regione e regolare quelli italiani, proporre all’Italia un patto (gentlemen’s agreement) firmato nel 1937 che, muovendo dal presupposto della cessazio-ne dell'intervento italiano in Spagna, vincolasse le due parti a non modificare lo status quo nell’area mediter-ranea. Tale intesa fu completata con gli Accordi di Pasqua del 1938, voluti dal nuovo Primo Ministro britannico, Neville Chamberlain, più interessato dei suoi predecessori ad avvicinare l’Italia. L'accordo prevedeva fra l'altro uno scambio di informazioni sui movimenti amministrativi e militari nei territori rispettivamente controllati confinanti con il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Impegno ad evitare contrasti nelle rispettive politiche mediorentali e conteneva una garanzia di riconoscimento dell'indipendenza e integrità dell'Arabia Saudita e dello Yemen. Inoltre reciproca dichiarazione di rispettare la convenzione di Costantinopoli del 1888 che stabiliva "in tutti i tempi e per tutte le potenze" la libera navigazione lungo il Canale di Suez. Infine la procedura di disimpegno delle forze italiane dalla Spagna, l'assenza di mire territoriali sulle isole Baleari o su altri possedimenti spagnoli, e disponibilità britannica di operarsi all'interno della SdN per rimuovere quegli ostacoli diplomatici al riconoscimento della sovranità italiana in Etiopia.
Intanto un'altra questione si apriva nel cuore dell'Europa: il destino dell'indipendenza dell'Austria.
Hitler puntava all'Anschluss: l'annessione dell'Austria alla Germania. Era quest'iniziativa vietata dal Trattato di Versailles, ma Berlino sapeva che niente era impossibile. Contrari all'annessione era stato Mussolini, pre-occupato che la Germania potesse minacciare l'Alto Adige, dove la maggioranza della popolazione era di lingua tedesca. Ma negli incontri personali tra Hitler e Mussolini il Führer tranquillizzò gli italiani. Nei piani te-deschi non vi era il Sud Tirolo. Inoltre Mussolini si era dichiarato difensore dell'indipendenza austriaca fino al 1936, cioè quando questa posizione gli aveva permesso di avere l'appoggio francese per l'iniziativa in Etio-pia. Ma nel 1938 ottenuto il controllo dell'Etiopia, visto l'interesse inglese di dialogare con la Germania e la crisi politica francese, Mussolini non aveva intenzione di entrare in contrasto con la Germania per l'Austria. Hitler doveva quindi convincere britannici e francesi riguardo l'annessione. Non fu un'impresa difficile. All'in-terno del governo conservatore britannico guidato da Chamberlain, i ministri degli esteri, prima Anthony E-den e poi Lord Halifax, erano convinti sostenitori di giungere brevemente ad un compromesso con la Ger-mania. Chamberlain invece puntava ancora alla realizzazione di un fronte internazionale che spingesse di-plomaticamente la Germania ad accettare un accordo in cui s'impegnava a non alterare l'equilibrio europeo. Nel 1937 Halifax incontrando Hitler e Goering riferì che una modifica dell'assetto internazionale in riferimento all'Austria, a Danzica ed alla Cecoslovacchia, sarebbe potuta essere accettata dalla Gran Bretagna, se fosse avvenuta pacificamente. Hitler fu convinto che aveva mano libera. La crisi politica interna alla Francia non permetteva a Parigi di ergersi come unico difensore del sistema di Versailles, anzi fu costretta ad allinearsi alla strategia britannica. Nel marzo del 1938 Hitler, agendo tramite propri esponenti, favorì un colpo di Stato a Vienna. La Repubblica austriaca cessava di esistere.

La conferenza di Monaco
Le vicende di Vienna e le pretese di Hitler verso la Cecoslovacchia rendevano la Germania un pericolo reale. E’ vero che la Germania stava riconquistando territori di lingua e cultura tedesca che le erano state tolte a Versailles, ma la preoccupazione era se Hitler si sarebbe fermato. Se questo non fosse accaduto fino a che punto le potenze democratiche sarebbero state con lui concilianti? Chamberlain sapeva che oltre una certa soglia lo scontro sarebbe stato inevitabile, ma la Gran Bretagna non era ancora pronta ad affrontarlo, si ren-deva necessario continuare a dialogare con gli avversari. Oltre alla propria impreparazione Londra non pote-va contare su alleati validi (Francia) od affidabili (URSS).
In questo clima si sollevò la questione della Cecoslovacchia. Essa nasceva riguardo al territorio dei Sudeti, un'estesa regione montana ad est della Germania, con popolazione di lingua tedesca, che a Versailles era stato deciso di annettere al nuovo stato della Cecoslovacchia (nato dall'unione della Boemia-Moravia, Alta Slesia e Slovacchia). Il Ministro degli Esteri britannico, Lord Halifax, aveva avvertito i tedeschi che se la Francia avesse attaccato la Germania, in risposta all’invasione tedesca della Cecoslovacchia (in base all’accordo di mutua assistenza del 1935 che legava Parigi e Praga) sarebbe stato impossibile per la Gran Bretagna non essere trascinata nel conflitto. Hitler aveva forse raggiunto quel punto, oltrepassando il quale sarebbe stato il responsabile dello scontro armato. In questo momento Hitler si convinse che la Gran Breta-gna rappresentava il prossimo nemico da sconfiggere. Ma anche la Germania non era pronta ancora per una guerra. Le gerarchie militari tedesche erano, in parte, contrarie all’avventura bellica; esisteva infatti un piano di occupazione della Cecoslovacchia, ma non un piano per un conflitto più ampio. Chamberlain, nell'estate del 1938, visitò più volte Berlino, Parigi e Praga con l'intento di far accettare il principio che la Cecoslovacchia potesse fare concessioni territoriali purché il restante territorio fosse garantito dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Hitler rispose che non vi era più tempo per negoziare e pose un ultimatum per 1° ottobre, passato il quale vi sarebbe stata un'azione militare. L'attivismo di Chamberlain per favorire un dialogo tra le parti che scongiurasse la guerra, tolse Berlino dalla situazione delicata di essere la causa del conflitto. Hitler capì che la diplomazia britannica lavorava allo spasimo per evitare la guerra. La mediazione di Chamberlain portò così all’inutile Conferenza di Monaco, in quanto ormai tutto era stato deciso nel momento in cui Hitler aveva posto l’ultimatum alla Gran Bretagna e alla Francia. La Conferenza fu conclusa il 30 settembre con un'accordo che tra i vari punti stabiliva l'evacuazione cecoslovacca dai Sudeti a partire dal 1° ottobre. Chamberlain rientrò a Londra esibendo la copia dell'accordo di Monaco annunciò che la guerra era stata evitata. Era la verità; ma per quanto tempo ancora la pace sarebbe durata?
Alcuni mesi più tardi, nel marzo del 1939, Hitler, attraverso una politica di minacce, costrinse i leader politici delle regioni costituenti la Cecoslovacchia a cedere. In 15 giorni Praga, Bratislava e la regione più ad est, la Rutania, furono occupate da truppe tedesche. Hitler per la prima volta controllava territori non di lingua tede-sca. La Conferenza di Monaco, sebbene vide il trionfo della diplomazia sulla guerra, non impedì ad Hitler di aprirsi la strada per la conquista dell'est e di sottomettere milioni di persone alla Germania nazista. Da quel momento il termine appeasement fu abbinato alla Conferenza di Monaco ed assunse un significato estre-mamente negativo. Neville Chamberlain, non fu però l'artefice dell'appeasement, ma l'ereditò da altri come strategia del compromesso, che nasceva dalla consapevolezza della debolezza della Gran Bretagna.
Dopo l’occupazione della Cecoslovacchia gli interessi della Germania puntavano alla Polonia. A Versailles era stato stabilito che la Prussia fosse divisa dalla Germania centroeuropea tramite un corridoio che giunge-va fino al Mare del Nord, a Danzica, città posta sotto il controllo delle SdN. Hitler pensava non solo di ridare continuità geografica alla Germania eliminando il corridoio di Danzica, ma sapeva che il controllo della Polo-nia significava il dominio nell'Europa centro-orientale. Vi erano però degli ostacoli. La Polonia infatti era legata da un alleanza con la Francia ed inoltre un'operazione militare in quella regione voleva dire coinvolgere anche l'URSS. La Gran Bretagna e la Francia di fronte alle pretese tedesche sulla Polonia avvertirono Berlino che avrebbero difeso, militarmente l’indipendenza, ma non il territorio della Polonia (in Gran Bretagna iniziò a diffondersi il detto: "Ma perché morire per Danzica?"). Londra ribadì il principio per il quale il Trattato di Versailles poteva essere modificato, e Danzica rientrava in questi termini, ma le richieste di Hitler andavano oltre la Danzica tedesca. I britannici e i francesi si convinsero che difficilmente l’espansionismo tedesco sarebbe stato fermato con mezzi diplomatici. Nei confronti dell'Unione Sovietica Berlino si tutelò firmando, nell'agosto del 1939, il patto di non aggressione con Mosca ( patto Ribbentrop-Molotov), che permise alla Germania di pensare in un secondo tempo allo scontro con l'URSS.
L’invasione della Polonia scatenò il conflitto. Hitler aveva superato il limite oltre il quale la Gran Bretagna non era più disposta a cedere.
Fine dell'appeasement
Lo scoppio della guerra pose fine alla strategia dell’appeasement del governo di Londra. Dopo l’occupazione della Polonia, l’apertura di Berlino verso Londra, perché si raggiungesse un accordo di pace che regolasse il nuovo assetto dell’Europa orientale, venne respinto da Chamberlain, per il quale era impossibile ricevere garanzie e pace dalla Germania nazista. Inoltre durante i drammatici giorni di Dunkurque la pressione interna al governo di Londra perché si raggiungesse ad una soluzione con i tedeschi che garantisse la salvezza del Regno Unito fu contrastata da Churchill; la guerra doveva continuare fino alla definitiva sconfitta di Hitler, "Combatteremo sulle spiagge, sui mari, sulle colline, ma non ci arrenderemo mai".
Comunque furono presenti nel panorama politico britannico esponenti ancora favorevoli alla pace con l’Hitler vincitore. Infatti una storiografia più sensazionalista riferisce che il Duca di Windsor, che salì al trono nel gennaio1936 con il nome di Edoardo VIII per poi abdicare nel dicembre per poter sposare l'americana, non nobile, Wallis Warfield Simpson, fosse un sostenitore della politica di appeasement. Non solo, fu fatto allontanare dalla Gran Bretagna (nel luglio del 1940 fu nominato rappresentante della corona nel possedi-mento delle Bahamas), perché al centro di un piano che lo voleva a capo a Londra di un governo fantoccio che firmasse un accordo di pace con la Germania. A sostegno di questa tesi ci si riferisce anche alla miste-riosa missione, nel maggio del 1941, di Rudolf Hesse (fu l'inviato di Hitler a Londra per trattare la pace?). Negli ambienti conservatori inglesi infatti la preoccupazione principale era il socialismo, ed un'unione tra Gran Bretagna e Germania contro il pericolo sovietico non era totalmente respinta.
La politica britannica di appeasement era nata per difendere l’Impero dalle diverse e contemporanee minac-ce (Germania, Giappone, Italia), ed allontanare i rischi di una guerra per la quale Londra era impreparata (debolezza economica e militare). Eppure nel 1939 la Gran Bretagna fu costretta, ancora impreparata, ad entrare in guerra, alla fine della quale sarebbe uscita ancor più indebolita ed incapace di opporsi al processo di decolonizzazione.
Il governo di Londra era riuscito ad individuare i pericoli (minacce all’Impero e guerra), ma l’appeasement gli aveva permesso solo di rinviarli. Al di là dei limiti di tale politica, di fronte all’espansionismo tedesco, la Gran Bretagna non era riuscita a dotarsi di una strategia alternativa alla conciliazione, che coinvolgesse, in maniera più diretta, la Francia e l’URSS in un fronte antitedesco.
RDF
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Approfondimento

L'appeasement francese
Negli anni venti la Francia si era dimostrata estremamente decisa nei confronti della Germania, ma la Ger-mania, uscita sconfitta dalla Prima Guerra Mondiale, era la debole Repubblica di Weimar, che assalita da una profonda crisi economica e da attacchi politici interni, fu vittima di colpi di stato promossi da gruppi di estrema sinistra ed di estrema destra. All'inizio degli anni trenta il comportamento dei governi francesi nei confronti della Germania sembrò invece cambiare. La Francia fu attraversata da una grave crisi politica, nel 1932 si succedettero 5 governi, mentre nel 1933 le difficoltà istituzionali si accompagnarono a quelle econo-miche. Contemporaneamente all'ascesa di Hitler in Germania, in Francia trionfava la linea diplomatica del Ministro degli esteri Joseph Paul-Bancour, che confidava nella possibilità di ripescare formule di sicurezza collettiva (accordi internazionali) per limitare la Germania in Europa ed il Giappone in Asia. Ma nel 1934 la costituzione di un governo di solidarietà nazionale guidato da Gaston Doumergue, vide occupare il Quai d'Orsay da Louis Barthou. Barthou era un forte sostenitore della strategia di non dialogo con la Germania di Hitler, in quanto Hitler andava contrastato non favorito nel suo progetto revisionista. Per contrastare la Ger-mania Parigi scelse quindi di aprire all'URSS, fino allora rimasta isolata diplomaticamente. La scelta sovieti-ca della Francia non convinse gli ambienti britannici, da sempre diffidenti del bolscevismo. Il fronte antitede-sco disegnato da Barthou crollò con la morte dello stesso Ministro, caduto vittima di uno spettacolare, quanto misterioso attentato a Marsiglia mentre riceveva il re di Jugoslavia Alessandro I (la responsabilità dell'attentato fu degli estremisti nazionalisti croati di Ante Pavelic; ma a tutt'oggi rimangono dubbi sul coinvolgimento nell'attentato del regime italiano, contrario alla politica balcanica della Francia). Il successore di Barthou fu Pierre Laval, convinto nell'abbandonare il legame con Mosca per recuperare invece l'intesa con Gran Bretagna ed Italia.
La linea diplomatica francese fu nuovamente stravolta nella primavera del 1936, quando le elezioni furono vinte dal Fronte Popolare, ed entrò a far parte del governo, guidato da Leon Blum, anche il partito comuni-sta. Le linee di politica estera furono dettate dal Ministro degli esteri, Yvon Delbos, ed dal segretario generale Léger, che predilessero l'aiuto ai repubblicani spagnoli e l'adozione di una politica di basso profilo nei confronti di Italia e Gran Bretagna. Ma la scelta di non intervento nella guerra civile spagnola, voluta da Gran Bretagna, URSS, Germania ed Italia, fu accettata anche dalla Francia, mettendo in crisi il Cartello delle sinistre e riportando alla paralisi la vita politica francese. Blum tornò brevemente al governo nella primavera del 1938. Il governo cadde e fu sostituito da quello guidato da Edouard Daladier e dal suo Ministro degli esteri Georges Bonnet, i quali sebbene convinti delle intenzioni aggressive di Hitler, continuarono per una politica di conciliazione con la Germania, e nel dicembre del 1938 firmeranno a Parigi con il Ministro degli esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop un accordo di non aggressione. Si riconobbero solennemente come definitive le frontiere esistenti fra i due paesi. I tedeschi riferirono però che nei colloqui, Bonnet, indirettamente, aveva riconosciuto l'influenza germanica nell'Europa dell'est. Da quel momento la Francia non potette che rassegnarsi alla politica britannica di ricercare un'intesa con la Germania riguardo l'Europa.
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Bibliografia orientativa
E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali 1918-1999, GLF Editori Laterza, Roma, 2000.
J. B. Duroselle, Storia Diplomatica dal 1919 al 1970, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1972.
A. Eden, Le Memorie di Anthony Eden-Di fronte ai dittatori 1931-1938- Garzanti, Milano, 1962.

Austria: inno anche per le donne

(fonte: Sette-Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

L’inno nazionale austriaco, Land der Berge (Paese delle montagne), potrebbe presto cambiare nelle parole, per rendere così onore e giustizia alle donne austriache. Infatti l’inno appare a molti austriaci superato ed eccessivamente maschilista nell’esaltazione di eroi, imperatori e guerrieri esclusivamente uomini. Eppure fu scritto nel 1947 proprio da una donna, la poetessa Paula von Preradovic. Ma oggi la deputata dell’OVP, il Partito Popolare, Maria Rauch-Kallat, ha presentato un emendamento perché il testo sia cambiato, già nel 2012, e renda onore, finalmente, anche alle donne austriache.
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lunedì 19 settembre 2011

Sesto Fiorentino - Settimana della pace

"Settimana della pace", al via la VI edizione
Sesto Fiorentino 17/25 settembre
Il programma di questa settimana
Luned ì 19
• ore 18,00 - Sala Vincenzo Meucci,
Biblioteca Pubblica “Ernesto Ragionieri” - Piazza della Biblioteca 4
Donne d’Oriente
Incontro con Haifa Alsakkaf, membro del direttivo dell’Associazione
Donne Arabe; Afaf Haji, psicologa dell’infanzia e dell’adolescenza;
Ivana Niccoli, vicesindaco di Sesto Fiorentino. A cura dell’Associazione
Donne Arabe; in collaborazione con la Consulta Comunale Pari
Opportunità del Comune di Sesto Fiorentino
• ore 18,00 - Sala Ragazzi,
Biblioteca Pubblica “Ernesto Ragionieri” - Piazza della Biblioteca 4
Un mondo a colori
Animazione per i più piccoli sui temi della pace
A cura della Biblioteca Pubblica “Ernesto Ragionieri”
MERCOLEDì 21
• ore 11,30 - I.I.S.S. “Piero Calamandrei” - Via Milazzo 13

MERCOLEDì 21
Una finestra sul mondo
11 settembre 2001 / 2011 - L’attacco alle
Twin Towers e il maremoto del mondo arabo
Incontro con Lucio Caracciolo,
direttore della rivista di geopolitica “Limes”


• ore 20,30 - Polisportiva Sestese - Piazza IV Novembre 55
Cena con menu arabo
A cura dell’Associazione Donne Arabe; in collaborazione con la
Consulta Comunale Pari Opportunità del Comune di Sesto Fiorentino.
Prenotazione obbligatoria ai numeri 320 8722645 e 380 7957585
Domenica 25
Marcia Perugia-Assisi
per la Pace e la Fratellanza dei Popoli
Partecipazione ufficiale del Comune di Sesto Fiorentino

domenica 18 settembre 2011

Storia - Il brigantaggio contro l'Unità d'Italia

I 150 anni dell'Unità d'Italia





Articolo pubblicato nei numeri di marzo ed aprile 2003 di Dossier & Intelligence
Testo di Roberto Di Ferdinando

Il 13 febbraio 1861 il re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, abbandonava Gaeta, cinta d’assedio dai piemontesi, e s’imbarcava per Civitavecchia, da dove poi sarebbe giunto a Roma, ottenendo asilo da Papa Pio IX. Francesco II perdeva così ciò che restava dei propri domini, le regioni meridionali della penisola ita-liana, infatti, erano definitivamente annesse al regno d’Italia. La corte borbonica però non si sarebbe adattata rapidamente al nuovo assetto unitario dell’Italia, ma lo avrebbe ancora contrastato. Difatti, dal suo esilio romano, Francesco II tentò la riconquista del trono di Napoli, indirizzando verso una reazione antiunitaria, quel movimento di insurrezione popolare che dal 1860 infestava le province del Meridione, e che gli storici avrebbero poi definito con il termine di grande brigantaggio.
La conclusione del Risorgimento nel sud Italia e la nascita dello Stato unitario infatti non erano state accom-pagnate dalla fine del latifondo e dello sfruttamento economico dei contadini meridionali, e inoltre il nuovo regno aveva aumentato la pressione statale con nuove tasse, peggiorando le già misere condizioni di vita. Il malessere popolare così confluì, almeno fino a tutto il 1865, in una rivolta sociale, che assunse veri e propri aspetti di guerra civile, e si scagliò contro i proprietari terrieri e le nuove autorità liberali locali. Contadini, braccianti, pastori, renitenti alla leva e disertori affiancarono comuni criminali nella formazione di bande, de-dite ai saccheggi, alle rapine ed alla violenza. Questo banditismo fu però incapace di darsi una propria orga-nizzazione, e a lungo divenne strumento in mano ai lealisti borbonici e ai clericali, per obiettivi antiunitari e antiliberali. Il grande brigantaggio, sorto come fenomeno sociale, dal febbraio del1861 assunse così anche un carattere politico.

Lo spionaggio borbonico
Non era la prima volta che i Borboni sfruttavano l’insoddisfazione popolare per fini politici. Nel 1799 infatti, l’insurrezione sanfedista, di popolani e briganti, voluta e guidata dal Cardinale Ruffo, travolse le repubbliche giacobine del napoletano, permettendo a Ferdinando di Borbone di ritornare sul trono di Napoli. Francesco II riteneva che il successo di questo precedente potesse ripetersi se vi fosse stata la capacità, da parte delle autorità borboniche, di dare un’unica guida ed un indirizzo legittimista alla rivolta brigantesca. A tal fine il re, appena giunto a Roma, incaricava il marchese Pietro Calà Ulloa, Presidente del governo in esilio, di realizzare una rete di spionaggio che operasse con compiti di sobillazione nelle campagne meridionali, si ponesse in contatto con i capi banda delle province più lontane del Mezzogiorno, per finanziarli ed istruirli sugli interessi liberali da colpire, ed infine organizzasse bande, comandate da ufficiali borbonici, attive nel territorio italiano prossimo al confine pontificio. Per questa rete Ulloa poteva contare sulla collaborazione di molti lealisti che da tempo si erano rifugiati a Roma, in maggioranza rappresentanti dell’aristocrazia, ex impiegati destituiti e numerosi membri dell’esercito borbonico. Circa 16000 soldati e 600 ufficiali avevano trovato riparo nei confini pontifici, tanto che molti dei soldati furono impiegati nelle bande, mentre gli ufficiali svolsero le funzioni di agenti segreti.
L’organizzazione reazionaria era divisa in comitati, con al vertice il Comitato Centrale di Roma, che si riuniva sotto il nome di Associazione Religiosa, ed era presieduto dal conte di Trapani e dal Ministro della Guerra, il fratello del re, il conte di Trani; mentre la carica di Segretario Generale era ricoperta dal generale Clary. Il Comitato Centrale stabiliva i piani strategici della guerriglia, e inoltre si sarebbe preoccupato di trovare il de-naro e le armi da inviare alle bande. A rendere esecutive le decisioni del Comitato Centrale si occupavano i comitati segreti locali, che erano stati istituiti a Napoli, Bari, Gioia del Colle, Melfi, Civitavecchia, Frosino-ne, Velletri, e Pratica di Mare; nelle località senza comitati invece operavano gli emissari. Questi centri loca-li si componevano di un delegato, con estesi poteri, nominato dal Comitato Centrale, un segretario, con il compito di attivare le comunicazioni con gli altri comitati, un cancelliere, un cassiere generale e quattro cen-sori, responsabili dell’amministrazione della cassa e degli atti degli affiliati. Inoltre otto deputati avevano l’ufficio di soccorrere i poveri, era questo un modo per ottenere consensi tra i locali, mentre otto decurioni, i più influenti sulla popolazione, si occupavano dell’arruolamento. Le trasmissioni tra comitati e tra questi e i capi banda erano garantite dagli staffieri (corrieri), due per ogni centro.

L’arruolamento
I comitati segreti avevano il compito di arruolare, di organizzare lo spionaggio, curare la propaganda (finan-ziando giornali ed affiggendo per le strade dei paesi manifesti inneggianti all’insurrezione contro i piemonte-si) e di coordinare le attività delle bande.
L’arruolamento avveniva con l’appoggio e la collaborazione delle autorità pontificie. Alcuni briganti catturati da reparti militari italiani raccontavano così di essere stati contattati: si presentavano a loro, che erano origi-nari dello stato borbonico, ex ufficiali napoletani, accompagnati da poliziotti pontifici che li intimavano, come ordine di polizia, di arruolarsi presso le bande di Chiavone (Luigi Alonzi, detto Chiavone, ex guardaboschi di Sora, fu capo banda e condusse la sua guerriglia sul confine pontificio e presso le selve di Castro). Passavano la notte nei magazzini di Palazzo Farnese (sede romana della corte borbonica) per poi essere condotti alla frontiera. La paga giornaliera era di 4 carlini, ma sarebbe stata consegnata solo al ritorno di Francesco II sul trono di Napoli; venivano inoltre muniti di un brevetto, che dava loro il diritto di entrare in possesso di terreni od essere assunti presso l’amministrazione pubblica una volta restaurato il regno borbonico.
Le bande formate a Roma erano guidate da un comandante in capo e da ufficiali scelti dal Comitato Centra-le. Per superare il confine ed evitare di incappare nei controlli delle truppe francesi, gli arruolati indossavano le uniformi della polizia vaticana. Questa precauzione non era sempre necessaria, in quanto i francesi dove-vano garantire esclusivamente la difesa dei confini papali e la sicurezza del Papa da minacce italiane, e quindi non si preoccuparono spesso di contrastare i briganti. Ma in quei rari casi in cui intervenivano per di-sarmarli, si attivava subito la gendarmeria vaticana, che li rimetteva in libertà e riconsegnava loro le armi. La maggioranza degli arruolati era scelta tra villani, vagabondi e malviventi, ed a Roma venivano contattati, an-che direttamente da sacerdoti, in piazza Montanara e a Campo de’ Fiori. Altri luoghi di arruolamento erano Velletri, Anagni, e, in provincia di Frosinone, nel Convento di Scifelli, e nelle Abbazie di Casamari, Trisulti e San Sozio; quest’ultime, per la loro posizione strategica vicino alla frontiera italiana, svolgevano anche il compito di sicuro rifugio per le bande, oltre quello di quartieri generali, di magazzini di armi e vestimenti.
Intanto a Roma, Villa Patrizi, presso Porta Pia, era luogo di convegno per gli esponenti clerico-borbonici, tra cui il padre cappuccino Gian Maria di Potenza, confessore di Francesco II, ed il potente Monsignor Gallo; in queste occasioni si decideva dei rapporti da mantenere con i vescovi stranieri, per convincere la Francia di Napoleone III ad aiutare la corona cattolica dei Borboni, e delle relazioni con i comitati napoletani.
Nella seconda metà del 1861, l’organizzazione reazionaria borbonica era già operante, poteva contare su 81.000 iscritti, di cui 17.000 armati.

L’organizzazione internazionale
Francesco II prima di lasciare Gaeta, aveva rivolto un appello alle monarchie d’Europa perché lo sostenes-sero finanziariamente e militarmente, puntando sul fatto che il tema legittimista fosse molto caro alle case regnanti europee, ma non ottenne risposte positive. La corte borbonica era però consapevole che la batta-glia si sarebbe combattuta, politicamente, anche sul piano internazionale, quindi fu dato incarico ancora al marchese Ulloa di sensibilizzare l’opinione pubblica e politica europea alle vicende del Meridione. Così per le strade di Parigi iniziarono ad apparire manifesti inneggianti ai Borboni, e sempre a Parigi furono fondati giornali, quali: “Le Roi de Naple et l’Europe”, “François II Roi d’Italie”, “Rome et Gäete”, “Le Journal de Siége de Gäete”, che si schieravano a favore di Francesco II, ed inoltre molte erano le pubblicazioni, francesi ed inglesi, che descrivevano i briganti come lealisti. Si costituirono comitati per l’arruolamento anche all’estero, a Parigi, Tolone, Marsiglia, Malta e Barcellona. L’ambasciatore di Spagna presso la corte borbonica, Bermu-dez de Castro, si attivò, in Spagna ed in Francia, per far giungere al re di Napoli aiuti militari ed economici, ma ottenne solo l’arrivo di pochi legittimisti europei che sarebbero stati inviati al Sud per porsi a capo delle bande.
Senza aiuti stranieri, l’impegno reazionario diventava sempre più oneroso per le casse borboniche, tanto da spingere Francesco II, sul finire del 1861, a ricorrere ad uno stratagemma; furono, infatti, battute a Roma monete da 20 centesimi borbonici con la data del1859, ed inviate ai comitati locali del sud per l’arruolamento. Si faceva credere infatti che il ritorno dei Borboni sarebbe stato imminente, e che quindi an-che le loro monete avrebbero presto ripreso corso legale. Le finanze reali dovettero subire anche attacchi di natura diversa, basti pensare che, sempre nel 1861, un certo Henri de Chatelinan, accreditandosi presso la corte borbonica come eroe legittimista, fu incaricato da Francesco II di porsi a capo delle forze reazionarie, ma scomparve nei giorni successivi con 30.000 lire (circa centomila euro). Così come il legittimista austriaco Ludwing Zimmerman, che si recava spesso dal sovrano borbonico per ottenere denaro da destinare alle bande di Chiavone, ma più delle volte lo utilizzava per fini personali e poco nobili. Ed altri ancora, special-mente capi banda, che, attratti dai soldi provenienti da Roma, si mettevano in contatto con emissari borbonici senza poi realizzare le missioni per cui erano stati pagati. Come rimedio a questi comportamenti il Comitato Centrale invitava quelli locali a nominare, come cassieri e censori, persone sulla cui onestà non si potesse dubitare, e spesso la scelta ricadeva su sacerdoti.

Il ruolo della Chiesa
La casa reale borbonica, nella sua campagna antiliberale, ottenne aiuto dallo Stato pontificio. I motivi che spingevano il governo di Roma a contrastare il nuovo regno d’Italia, erano numerosi. Per esempio la perdita di ampi territori e beni, a vantaggio del Piemonte, che aveva ridotto i confini pontifici a poco più del Lazio, i progetti democratici (dei mazziniani e garibaldini) di completare l’unificazione con la presa di Roma ed infine i recenti decreti Mancini (17 febbraio 1861) che espropriavano mediante confisca i beni ecclesiastici. Per quest’azione antiunitaria il governo di Roma, presieduto da Monsignore De Merode, poteva contare sulla potente rete episcopale del sud e sull’influenza che la Chiesa aveva nelle campagne meridionali. Inizialmente però la propaganda legittimista del clero fu discreta, i sacerdoti, nelle loro prediche, alludevano a Vittorio Emanuele II designandolo come Erode e a Francesco II come Gesù Cristo. Ma ben presto iniziarono ad inci-tare le popolazioni perché aiutassero i briganti e perché questi si scagliassero contro i liberali, ed ovunque sostituissero la croce dei Savoia con i gigli dei Borboni. I conventi di Napoli ricettavano uniformi e kepie della Guardia Nazionale italiana per vestire mercenari e lanciarli in assalti ai corpi di guardia.
Nella primavera del 1861 il brigante Carmine Donatelli detto Crocco, che operava con la sua banda al confi-ne tra la Basilicata e la Campania, fu accolto dall’arciprete di Lavello, Ferdinando Maurizio, con la bandiera bianca dei Borboni. Mentre nell’avanzare in Irpinia, a S. Andrea di Conza, gli fu offerto un banchetto ed ospi-talità nel seminario dall’Arcivescovo Gregorio De Luca. Per questi atteggiamenti i vertici religiosi furono spesso colpiti dalla repressione italiana; sempre nel 1861, il generale Cialdini, autorità militare e civile nel Meridione, decise l’espulsione dal regno dell’Arcivescovo di Napoli, e seguirono lo stesso destino i vescovi di Salerno e Teramo, mentre altri 71 furono arrestati o fuggirono a Roma. Non tutto il modo clericale fu comunque favorevole a rispettare le direttive provenienti da Roma; numerosi preti infatti avevano combattuto contro gli stessi Borboni e famosa fu la posizione dei cappuccini della Basilicata e di Salerno, che seguirono i dettami della loro guida, padre Giovanni de Pescopago, di provata fede liberale, che in aperta insubordinazione alle gerarchie ecclesiastiche, il 29 agosto 1861, nella sua enciclica richiamava i cappuccini a “ […] non essere quelli che benedicevano i pugnali, di non accendere l’odio e la ferocia e di non armare i fratelli contro i fratelli […]”. Gli esponenti liberali del clero erano soggetti alla scomunica od alla sospensione a divinis perché si opponevano a predicare nelle campagne l’imminente restaurazione borbonica, realizzata grazie all’appoggio del Papa, dell’Austria e della Francia. Il brigante Francesco Gumbaro, appena arrestato, durante l’interrogatorio diceva: “Mi unì alla banda di Sacchitiello, perché mi illusero che era protetta da Francesco II, che mandava denari e munizioni e che tra breve sarebbe rientrato a Napoli e ci avrebbe dato terreni e denari”. A sostenere queste credenza, gli emissari borbonici consegnavano ai briganti bottoni ed anelli di zinco, sui quali erano incisi una corona ed una mano che impugnava uno stilo con un motto: Fac et spera.
Gli anni orribili
Nella primavera del 1861 i provvedimenti del governo Cavour aumentarono il malcontento popolare, spin-gendo molti a darsi alla macchia. Le bande, composte da un minimo di 15 ad un massimo di 500 uomini, si formarono un po’ ovunque (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Campania) ed operarono spesso indisturbate nelle province, dove l’autorità militare poteva dispiegare solo 1500 carabinieri, alcuni reparti di polizia e della Guardia Nazionale. Quest’ultima, male armata, male organizzata e non sempre fidata; mentre circa 20.000 soldati erano schierati alla difesa di Napoli e dei principali capoluoghi. Le piccole comunità era-no costrette ad arrendersi agli assalti ed ai saccheggi. In alcuni paesi, la gente non si vergognava di segna-lare ai banditi le case dei possidenti o dei liberali per avere la vita salva. La Guardia Nazionale era presente nei villaggi con solo 5 o 6 uomini e si lasciava facilmente disarmare. Spesso i sindaci facilitavano l’occupazione dei loro paesi per ridurre i danni, e poi, dopo aver invitato i banditi ad andarsene, avvertivano i soldati per non avere guai con la legge. Le bande operavano con tattiche di guerriglia, non accettavano mai di scontrarsi direttamente con i reparti militari italiani, e gli agguati e le occupazioni dei paesi venivano sempre pianificati studiando le vie per la ritirata. Le bande conoscevano perfettamente il territorio, avevano una estrema mobilità, potevano ingrossarsi, frazionarsi, disperdersi e ricomporsi rapidamente.
Nel 1861 furono numerose le azioni violente e le occupazioni di interi paesi. Il bandito Crocco alla guida di 600 uomini occupò in Basilicata, Venosa e Melfi, issando le bandiere borboniche, e mettendo a riscatto i galantuomini. Il capo banda Vincenzo Petruzziello a Montemiletto (AV) uccise il capitano della Guardia Nazionale, il sindaco, l’arciprete, ed alcuni uomini furono sepolti vivi nel cimitero. Dopo essere stato arrestato, Petruziello rivelò che la banda riceveva denaro da Roma e da Benevento. Furono occupati paesi nella Terra di Lavoro (CE), nel Molise, e presso Benevento; in Irpinia 31 comuni alzarono la bandiera bianca borbonica, mentre presso Caserta alcune bande assaltarono un treno che trasportava truppe italiane verso Napoli.
Saverio Basile detto Pilorusso, entrato a Colle Sannita (BN), s’impossessò del comune al grido di “Viva Francesco II” e bruciò gli archivi. In onore dell’ex re di Napoli e della regina Maria Sofia, riunì, nella chiesa del paese, tutti i cittadini e fece cantare il Te Deum. A S. Giorgio del Sannio i possidenti locali, nell’interesse loro e del paese, dopo aver intimato al comandante della Guardia Nazionale di allontanarsi temporaneamen-te per evitare inutili spargimenti di sangue, invitarono Pilorusso in paese e gli fecero una festosa accoglien-za. Furono esposte le bandiere borboniche sul campanile della chiesa, vennero liberati i prigionieri dalle car-ceri, e questi armatisi, occuparono il municipio e bruciarono gli archivi. Un’usanza comune ai briganti era il rogo degli archivi, in quanto contenevano i registri dell’odiata leva e gli incartamenti dei processi.
In Puglia, il generale Clery, approfittando dell’odio che i contadini covavano verso i galantuomini, ordinò al comitato di Gioia del Colle, di favorire l’ex soldato borbonico, Pasquale Romano, conosciuto con il nome di battaglia di sergente Romano, a formare delle bande. Romano, con i soldi provenienti da Roma e dal comitato di Parigi, provocò l’insurrezione di Gioia del Colle, che fu duramente repressa dalle autorità italiane.
Dall’8 agosto al 6 settembre, Montefalcone Val Fortone (BN) fu amministrato dai filoborbonici, si trattava di briganti che ottennero ospitalità dalla popolazione locale. Emissari borbonici contattarono il bandito Michele Caruso, sulla cui testa c’era una taglia di 20.000 lire, perché compisse attacchi tra Foggia, Benevento e Campobasso. Caruso era solito sottoporre ai propri compagni un giuramento che li impegnava a combattere contro i liberali, nemici della Chiesa, per restaurare il potere di Francesco II.
Nel 1862, le azioni banditesche si concentrarono nell’alta valle dell’Ofanto, tra la Basilicata e l’Irpinia, circa 400 erano le bande, con 80.000 uomini alla macchia, senza contare gli informatori, i rifornitori, i conniventi e i parenti.

I legittimisti europei
L’appello di aiuto di Francesco II alle monarchie europee era rimasto inascoltato, ma la causa borbonica in Europa aveva riscontrato l’interesse di avventurieri legittimisti, che nel 1861 giunsero a Roma. Francesco II pensò di utilizzarli per affiancare i capi banda. Questo era il tentativo di dare al movimento un certo coordi-namento e di limitare la strategia dei saccheggi dei briganti che iniziava a suscitare malcontento nelle popo-lazioni locali. Così il Comitato centrale inviò il francese Olivier De Langloise in Basilicata a Lagopesole, da Crocco per consegnargli 800 fucili e denaro, e proseguire poi fino a Potenza per riunire gli sbandati della zona. I fucili consegnati alle bande venivano spesso dalle armerie vaticane, infatti ai briganti arrestati furono più volte trovate armi con lo stemma pontificio.
Nell’inverno del 1861, Ludwing Zimmerman, con il prussiano Edwin Kalckreuth affiancò Chiavone in Basilica-ta. Anche il barone Theodor Friedich, figlio naturale del principe Ludovico Ferdinando di Prussia, raggiunto Francesco II già a Gaeta, formò una brigata leggera ad Itri, partecipando agli scontri in Abruzzo.
Oltre a Josè Borjes (vedere box) occorre ricordare lo spagnolo Carlo Tristany, carlista, che raggiunse nel no-vembre del 1861, assieme al marchese belga Alfredo de Trazégnies, parente di Monsignor De Merode, le bande di Chiavone sul confine pontificio. Da subito però Tristany contestò a Chiavone i metodi della reazio-ne, basata esclusivamente sulla violenza. Il capo banda, nella sua azione, però potè contare sul sostegno di parte della corte borbonica, recandosi più volte a Palazzo Farnese, in udienza da Francesco II, per ottenere ulteriori armi e denaro. Ma ricevette anche l’appoggio dalla Chiesa, in particolare dai gesuiti che lo giudica-rono un combattente politico, e spesso si rifugiò dal Vescovo Monsignor Montieri, presso il convento di Scifelli. Il suo declino iniziò nel 1862, quando, contemporaneamente alla decisa repressione italiana del brigantaggio, il sostegno ed il finanziamento della Chiesa e dei Borboni ai briganti iniziò a venir meno, ed allora Tristany si vendicò. Infatti lo spagnolo dopo un processo di guerra lo condannò a morte per tradimento nel giugno 1862. Ma ben presto Zimmerman e Tristany, veduti gli scarsi risultati, decisero di ritirarsi, mentre Kalckreuth e de Trazégnies precedentemente erano stati catturati e fucilati dalle truppe italiane senza essere sottoposti prima ad alcun giudizio.
I capi banda non accettarono mai di cedere il comando dei loro gruppi a questi avventurieri, perché erano ostili, per tradizione, a qualsiasi straniero e poi perché i briganti, in generale, non furono mai dei veri legitti-misti. Gli emissari da Roma, quindi spesso si affidarono a persone in malafede e senza nessun ideale politi-co, ciò però fu capito troppo tardi dalla corte borbonica.
Inoltre Francesco II fu spesso illuso sulla portata reazionaria del movimento banditesco. Per esempio, nel novembre 1861, l’avventuriere francese De Rivieré, comandante di numerose bande, mentre si recava a Roma per ottenere udienza dal re, fu arrestato dalla polizia pontificia, caso raro, su ordine della Comitato Centrale. Misteriosamente scomparvero i suoi documenti che avrebbero dimostrato al sovrano l’esigua forza del fenomeno antiunitario e prove compromettenti il potente generale Clery ed altri membri del Comitato, sulla cattiva conduzione della guerriglia.

1863, fine del brigantaggio politico
All’inizio del 1863, il tentativo legittimista era tramontato, il brigantaggio perse la sua caratterizzazione politi-ca per continuare a mantenersi, come esteso e violento fenomeno sociale e di ordine pubblico, fino a tutto il 1865. Le cause di questo fallimento si trovavano, oltre che nei limiti della reazione sopra elencati, certamente nella durissima repressione avviata nel 1863 dalle autorità italiane. La lotta contro il brigantaggio impiegò 120.000 soldati. Furono promulgate leggi speciali (legge Pica e legge Peruzzi), che istituirono tribunali speciali e che sospesero qualsiasi diritto per gli accusati di banditismo, furono stabilite taglie contro i briganti e premi per chi si fosse costituito o pentito, fu potenziata la rete di spie. Tra il 1861 ed il 1865 furono uccisi quasi 14.000 briganti, senza contare i condannati e i fermati.
Ben presto anche il Vaticano iniziò a combattere il brigantaggio che aveva perso ogni connotato antiliberale per diventare semplice criminalità; tra il 1864 e 1865 numerosi furono i proclami delle autorità romane contro le bande. Il Delegato Apostolico di Frosinone Monsignore Pericoli, emanò un severo editto contro il brigan-taggio nelle zone di confine; si istituì una commissione per giudicare, anche con sentenza di morte, senza appello, le azioni delle bande nelle province di Velletri e Frosinone. Nel settembre 1864, Napoleone III decise di ritirar lentamente le sue truppe, la difesa dello Stato pontificio sarebbe passata all’Italia, limitando così la libertà di movimento dei briganti alla frontiera. Nel 1865, la Convenzione di Cassino istituzionalizzò la col-laborazione tra autorità pontificie italiane per la lotta al brigantaggio. I Borboni non sarebbero più tornati sul trono di Napoli.
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Approfondimenti

JOSE’ BORJES, IL GARIBALDI BORBONICO
Francesco II voleva dare un comando unitario alle numerose bande di briganti del Meridione, al fine di pro-muovere nelle zone rurali una estesa insurrezione contadina che restaurasse il trono di Napoli. L’obiettivo era di ripercorrere l’iniziativa garibaldina, ma questa volta in senso antiunitario. Occorreva però individuare una personalità capace di porsi a capo di una tale missione. Il Principe Ruffo di Scilla, fedele borbonico, grazie alla collaborazione dell’ambasciatore spagnolo presso i Borboni, Bermudez de Castro, si mise in contatto in Francia con José Borjes. Borjes, catalano, ufficiale spagnolo, ritenuto un eroe legittimista per i servizi pre-stati in Spagna alla causa carlista, si era però rifugiato in Francia, svolgendo un’attività poco guerrigliera, quella di rilegatore di libri. Il Principe Ruffo incontrò a Parigi Borjes per metterlo a corrente dell’iniziativa nel sud Italia. Le autorità borboniche, grazie ai comitati locali ed agli emissari, avrebbero fatto in modo che l’ufficiale spagnolo fosse ricevuto al suo sbarco in Italia, in Calabria, da numerosi contadini e briganti, tutti ben armati. A capo di questo esercito avrebbe dovuto risalire la penisola, liberando le regioni meridionali dai piemontesi. Fu scelta la Calabria, in quanto la Sicilia, ostile al governo di Napoli, rivendicava una propria autonomia e si dubitava sulla possibilità di provocarvi una lotta reazionaria.
Nell’estate del 1861 il generale Clary dette per iscritto istruzioni a Borjes, il quale, appena giunto in Calabria, avrebbe stabilito il potere militare di Francesco II nelle zone occupate, nominato i sindaci, gli aggiunti, i decurioni e la Guardia Civica. Avrebbe scelto uomini devoti al re ed alla regina, proclamato il servizio militare ed organizzato l’esercito in reggimenti e battaglioni e stabilito i tribunali ordinari e l’amnistia per tutti i reati politici. Invece i governatori delle province sarebbero stati nominati dal re. Borjes, alla vigilia della sua partenza da Marsiglia, avrebbe avvertito il generale Clary dell’inizio dell’invasione, attraverso un messaggio telegrafico da recapitare a Roma presso questo indirizzo: Langlois, Via della Croce n° 2, e con questo testo: Giuseppina gode buona salute, si rimette parte del giorno.
Borjes sbarcò in Calabria a Brancaleone, presso Capo Spartimento, il 14 settembre 1861 con 17 compagni volontari italiani e spagnoli. Ad attenderlo non trovò numerosi combattenti lealisti, ma solo pochi locali, i cit-tadini di Prelacore, guidati dal loro sacerdote. Iniziò così la sua avanzata verso la Basilicata, evitando nume-rose imboscate procuratele da alcuni paesi di fede liberale, ma riuscendo ad ottenere spesso asilo presso alcuni monasteri. Giunse a Longopesole, in Basilicata, il 22 ottobre e si mise in contatto con le bande di Carmine Donatelli, detto Crocco. Aveva infatti ricevuto ordini dal Comitato di limitare l’azione di Crocco, senza però rinunciare al suo appoggio. Il bandito Crocco era un contadino di Rionero, condannato da giovane per reati contro la proprietà. Era evaso all’indomani della rivoluzione garibaldina, e dopo l’inutile tentativo di riabilitarsi partecipando nel reparto garibaldino dei “volontari di Basilicata”, per evitare il nuovo arresto, si dette alla macchia. Formò una banda di 2000 uomini e con 100 cavalli, capace poi di frammentarsi in 40 piccoli gruppi, fu attivo nelle zone di Lagopesole e Melfi. Assieme a Crocco, Borjes compì molte incursioni nei centri della Basilicata. Ma Borjes era un militare e voleva condurre l’azione secondo schemi militari e non gradiva il modo di operare dei banditi; così disgustato dai modi del capo banda, decise di provocare l’insurrezione a Potenza, per presentarsi al comando borbonico con la conquista di un importante capoluogo e confermare la propria fama di condottiero. Crocco era contrario, sapeva infatti che le bande non potevano attaccare una città come Potenza che era difesa bene dai militari italiani. Infatti il tentativo falli. Crocco, si rifugiò nei boschi del Vulture, si separò dallo spagnolo e sciolse la sua banda. Cadrà vittima della lotta tra capi banda e delle spie al soldo delle autorità italiane, tradito, fu arrestato a Roma nel 1864, dove si era rifugiato, e condannato ai lavori forzati a vita. Borjes decise di recarsi da Francesco II per informarlo delle difficoltà di operare con i briganti e l’impossibilità di provocare un’insurrezione, per la scarsa disponibilità dei capi banda a collaborare con gli stranieri. La sera del 14 dicembre 1861, a Tagliacozzo (AQ) nel tentativo di entrare nel territorio pontificio, fu sorpreso da un reparto di bersaglieri, guidati dal comandante Franchini, messo sulle sue tracce dalle indicazioni del console francese De Rotrou, e dopo un sommario giudizio sul luogo, nella stessa notte, fu fucilato assieme ai suoi compagni.
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IL GIURAMENTO
Nell’Ottocento, scrittori e letterati internazionali, in particolare francesi ed inglesi, tra cui Dumas padre, rivol-sero la loro attenzione alle vicende del brigantaggio. Nelle capitali europee numerosi giornali riportavano i resoconti delle gesta dei briganti e le vicende del Meridione italiano, che suscitavano notevole interesse tra i loro lettori. Tra i cronisti dell’epoca occorre ricordare il francese Marc Monnier (Firenze 1829-Ginevra 1885), già professore di letteratura straniera a Ginevra e rettore dell’Università della stessa città, che fu corrispon-dente per molti anni da Napoli per numerosi giornali: “Jounal des Débates”, “Revue des deux Mondes”, “Ma-gasin Pictoresque” e “Illustration”.
Testimone diretto degli anni del grande brigantaggio, nel 1862, Monnier descrisse il fenomeno banditesco nelle pagine di un suo libro dal titolo, Notizie storiche sul brigantaggio, che fu pubblicato, con successo, a Firenze nel 1865. Fu uno dei pochi testi, riguardanti il brigantaggio, che non fu censurato dalle autorità italiane perché si poneva critico verso i briganti ed accusava apertamente i Borboni e la Chiesa dell’uso politico delle bande. Per tale opera fu nominato personalmente da Vittorio Emanuele II, Ufficiale dell’Ordine di S. Martino e S. Lazzaro, una delle onorificenze più prestigiose del periodo. Dal libro di Monnier possiamo trarre la formula di giuramento degli affiliati ai comitati segreti borbonici:
“Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre) e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente sia per i suoi delegati del Comitato Centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore dei sovrani, trionfi con il ritorno di Francesco II, re per grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisca nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi e dei sedicenti liberali, i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati, Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della santa sede e di abbattere il lucifero infernale, Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo “.
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Bibliografia orientativa
Testi di carattere generale:

AA. VV., Brigantaggio, lealismo, repressione nel mezzogiorno, 1860-1870, Macchiaroli, Napoli, 1984.
G. Candeloro, Storia dell’Italia Moderna, Feltrinelli, Milano, 1972, Vol. V.
A. De Jaco (a cura di), Il Brigantaggio Meridionale-Cronaca inedita dell’unità d’Italia-, Editori Riuniti, Roma, 1969.
G. De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento: legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia, A. Guida, Napoli, 2000.
G. Galasso, Storia d’Italia, UTET, Torino, 1981,Vol. XX.
Perrone, Il Brigantaggio e l’unità d’Italia, Istituto Editoriale Cisalpino, Varese, 1963.

Testi di carattere particolare

A. Bianco di Saint-Joroz, Il Brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, A. Forni, Bologna, 1965.
N. Calzone, Briganti o partigiani?La rivolta contro l’unità d’Italia nel Sannio e nelle altre province del sud (1860-1880), Realtà Sannita, Benevento, 2001.
M. Monnier, Notizie storiche sul Brigantaggio nelle province napoletane, A. Polla Stampa, i Tascabili d’Abruzzo, 1986.

sabato 17 settembre 2011

XIV Convegno Castiglioncello - Verso un mondo senza armi nucleari

L'Assessorato alla Cultura del Comune di Rosignano Marittimo vi invita a partecipare al dibattito pubblico organizzato dalla Unione degli Scienziati Per Il Disarmo ONLUS nell'ambito del :



Venerdì 23 settembre 2011
ore 21:30
Castello Pasquini - Castiglioncello (LI)
ingresso libero


info:
Unità Organizzativa Attività Culturali
tel.0586 724395 - 496 -287
fax 0586 724286
sito web: www.comune.rosignano.livorno.it

Battisti non poteva che scegliere il Brasile

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

L’assassino, terrorista ed evaso Cesare Battisti, non poteva scegliere miglior luogo, il Brasile, per rifugiarsi. Infatti, l’Alta Corte brasiliana respinse l’estradizione dell’assassino Battisti, motivandola, in soldoni, che egli fu vittima, nelle sentenze della giurisdizione italiana, di un clima di odio politico e di persecuzione.
Ovviamente queste conclusioni della corte brasiliana non sono vere, ma l’assassino Battisti resta libero in Brasile. Quel Brasile dove il 13 agosto scorso è stata uccisa Patricia Acioli, giudice del Tribunale penale di Rio de Janeiro, da anni impegnata nello smascherare i poliziotti corrotti e le squadre della morte (milicias), reparti illegali della polizia che seminano morte e terrore nelle favelas. Dalle indagini sull’omicidio della Acioli è risultato che il commando assassino era composto da 12 membri, che ha utilizzato armi che in Brasile sono in dotazione solo alle forze armate e di polizia, e che ha operato subito dopo che al giudice è stata rimossa la scorta armata, nonostante avesse subito numerose minacce di morte, in particolare dopo aver condannato 4 poliziotti risultati responsabili dell’omicidio su commissione di 11 persone.
In Brasile si aggiunge al problema dei police killings anche quello del record, negativo, delle violazioni dei diritti umani. L’Human Rights Council dell’ONU, Amnesty International, Human Rights Watch e le Pastorali della Conferenza Episcopale brasiliana hanno denunciato l’uso crescente di lavoro in schiavitù, l’aumento di arresti arbitrari e di esecuzioni extragiudiziali. Il fenomeno è sottovalutato, in quanto i mezzi di informazione subiscono una censura forte su questi argomenti, mentre alcuni giornalisti che si occupano di questi casi sono stati anche minacciati di morte o perfino uccisi.
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I governi di Francia e Germania non sempre fanno scelte comuni

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Francia e Germania in ambito comunitario, in particolare quando si tratta di scelte economiche, sono in sintonia e spesso assumono la veste, antipatica, di primi della classe che guardano con un po’ di sufficienza e disprezzo la condotta (economica) degli altri stati membri discoli e svolgiati. Al di fuori delle tematiche comunitarie, Parigi e Berlino, invece, fanno scelte diverse, anche opposte, basti vedere l’intervento in Libia.
Sarkozy ha spinto per l’intervento militare NATO e la Francia è stata la protagonista nell’operazione, ormai si può dire, anti-Gheddafi. Parigi ha impiegato in Libia 50 aerei (Rafale e Mirage) oltre ad un numero cospicuo di elicotteri che in tutto hanno compiuto 2.700 raid, un terzo del totale, e 4.500 sorvoli, colpendo 450 obiettivi, ha schierato l’unica portaerei, la Charles De Gaulle, del conflitto, e reparti speciali a terra, spendendo oltre 2 milioni di euro al giorno per le operazioni militari. E tutto questo dispiegamento di forze è stato ripagato con solenni ed ampi riconoscimenti a Sarkozy, non solo da parte dei libici, ma anche dall’altra parte dell’Atlantico. Infatti il presidente francese è riuscito, con l’operazione Libia, a far guadagnare credito alla Francia da parte degli USA. Infatti dai tempi dell’intervento in Iraq , con il rifiuto di Chirac, allora capo di stato francese, di appoggiare politicamente e militarmente l’invasione anti-Saddam, voluta da Bush jr, la Francia aveva perso gradimento tra i politici ed i militari statunitensi, divenendo vittima di rozze battute: “arrendevoli scimmie mangiatrici di formaggio”, “qual è la bandiera di battaglia francese? Una croce bianca in sfondo bianco”, “perché i francesi non fanno mai la “ola” allo stadio? La fanno solo i soldati in battaglia”, “Qual è il libro più corto mai scritto? Eroi di guerra francesi”. Adesso il clima è cambiato e Washington rende onore all’iniziativa militare francese: “la Francia è da portare ad esempio al resto della Nato per come si è presa le sue responsabilità nella missione”, ha detto un alto ufficiale USA al New York Times. Gli USA inoltre hanno apprezzato il forte coinvolgimento francese (in particolare dal 2008, con l’arrivo all’Eliseo di Sarkozy) anche in Afghanistan, dove i caduti per Parigi sono 74.
Diversa invece è la situazione a Berlino dove la non adesione tedesca al Club dei Volenterosi in Libia ha aperto una forte polemica interna. L’ex ministro degli esteri tedesco, Joschka Fischer, dei verdi, che negli anni Novanta volle ed ottenne dal voto parlamentare l’impiego, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, delle forze di pace tedesche in Kosovo, ha detto: “L’atteggiamento del governo tedesco nella crisi libica è una grande disfatta. Forse la più grande disfatta nella storia della Bundesrepublik”. Anche l’ex cancelliere, Helmut Kohl ha apertamente criticato la non partecipazione tedesca all’intervento militare in Libia: “la Merkel ha perso la bussola. […] Siamo troppo grandi per ritirarci a un ruolo di grande Svizzera. Ma troppo piccoli per comportarci da potenza mondiale”. Anche la stampa tedesca ha criticato da subito la scelta della non partecipazione, tanto da parlare di rischio di isolamento.
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mercoledì 7 settembre 2011

La scuola della Libia di Gheddafi

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

La programmazione scolastica di Gheddafi prevedeva 45 minuti settimanali di educazione civica che erano impiegati nella lettura del Libro Verde scritto dal Rais nel 1975, l’ora di Arabo consisteva, invece nell’analisi e interpretazione del Mushtama, cioè il compendio dei pensieri del leader, invece, Storia affrontava i meriti della rivoluzione del 1969 (il colpo di stato che portò al potere Gheddafi), mentre la Prima e la Seconda Guerra Mondiale erano distorte e la Rivoluzione Francese non appariva sui libri (per il regime era una minaccia tutto ciò che parlava di rivendicazione di diritti). La Geografia era insegnata senza mappe, all’Università la colonizzazione italiana era trattata come l’ambizione italica di ricostituire l’Impero Romano, inoltre era previsto obbligatorio per potersi laureare, il superarmento di un test sulle massime del Colonnello. Oggi della scuola di Gheddafi possono essere salvati solo i testi di Matematica e Scienze, per il resto il nuovo governo di transizione è già a lavoro per dare alla Libia una programmazione scolastica ed universitaria più vera.
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La Turchia ed i cristiani

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

La Turchia di Erdogan è una delle poche economie, in questo periodo di crisi, a crescere con numeri impressionanti (ha superato anche la Cina nella crescita del PIL), ha un forte dinamismo diplomatico, rivolto in particolare all’Africa (si veda la sua presenza in Somalia), e inoltre nelle ultime settimane, forse per accelerare il processo di adesione all’UE, ha deciso di sanare una questione aperta da decenni con i turchi cristiani. Infatti Erdogan (musulmano osservante che guida un paese la cui popolazione al 90% è musulmana) la scorsa settimana ha annunciato che la Turchia restituirà alle Chiese e alle comunità religiose indicate nel trattato di Losanna e che ne faranno richiesta, i beni, tutele e simboli confiscati dallo Stato nel 1936. Tale decisione viene dopo il cambiamento delle leggi statali sul santo sinodo, un’altra apertura verso la Chiesa ortodossa. La Turchia di Erdogan diventa quindi il simbolo e l’esempio più alto di un Islam capace di garantire e tutelare le minoranze religiose.
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giovedì 1 settembre 2011

Gli Hezbollah al sole dei Caraibi

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Sono in tre e sono sbarcati a Cuba in questi giorni, non per godersi il caldo sole dell’isola, ma per tessere nuovi legami e rapporti con il mondo (rivoluzionario?) del mondo del Centro America e dell’America Latina. Sono tre rappresentanti dell’apparato operazioni “esterne” dell’Hezbollah, il movimento libanese filo-iraniano ostile ad Israele. La loro presenza preoccupa i servizi segreti di mezzo mondo. Infatti essi si sono già spostati in Messico e rappresentano l’avamposto di un altro gruppo, composto da 23 membri che si attendono prossimamente a Cuba. Gli Hezbollah infatti hanno deciso di aprire una sede stabile a Cuba e sono stati stanziati per l’operazione Dosseir Caraibi già un milione e mezzo di dollari. Non è una novità la presenza in questa regione degli Hezbollah, che da anni vi operano sempre per conto dell’Iran. Cellule operative sono difatti presenti a Ciudad del Este (Paraguay), in Brasile e nel Venezuela dell’amico Chavez. Compito di queste unità è raccogliere fondi, esercitarsi e studiare gli obiettivi da colpire con la violenza. Hanno già operato in Argentina, colpendo l’ambasciata israeliana ed la sede culturale ebraica. La sede cubana invece dovrebbe avere un ruolo più logistico: creare punti di appoggio, acquisire informazioni e documenti nella regione, reclutare informatori ed entrare in contatto con le locali organizzazioni criminali che in America Latina hanno un peso importante ed operano nel traffico di materiali più o meno leciti, in alcune zone, indisturbate. RDF

L’Occidente forniva i software a Gheddafi per controllare il popolo libico

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Man mano che a Tripoli si aprono gli archivi dei palazzi governativi del ex raìs, iniziano a venire alla luce i segreti del regime libico. Alcuni di questi però stanno mettendo in imbarazzo l’Occidente. Infatti, aziende private occidentali, mentre i loro governi combattevano Gheddafi, aiutavano e lo hanno fatto fino a poche settimane fa, il raìs nella repressione del suo popolo, fornendogli supporti informatici. Gli inviati del Wall Street Journal difatti hanno trovato nell’ex quartiere generale dell’intelligence libico materiale che testimonierebbe la collaborazione di compagnie straniere per oscurare siti Web, per intercettare mail e comunicazioni telefoniche. Si trattano di collaborazioni abbastanza recenti. Al sorgere della prima ribellione, nei mesi di gennaio e febbraio di questo anno, il regime libico contattò Amesys, società di ingegneria informatica, del gruppo francese Bull, per ottenere nuovi software per il controllo della rete Web (nonostante in Libia, data la censura, i navigatori Internet fossero solo 100.000 su una popolazione totale di 6 milioni di abitanti) e telefonica. Collaborazioni mirate al controllo ed alla censura sarebbero state anche quelle instaurate da Tripoli con le società high-tech Naurus (facente parte del gruppo statunitense Boeing), con la cinese ZTE e della sudafricana VasTech. Da precisare che, in seguito alla riduzioni delle sanzioni al governo libico sul finire degli anni Novanta, la vendita di materiale tecnologico al regime di Gheddafi non era più ritenuto un reato, sebbene negli Stati Uniti, per poter effettuare esportazioni di tale materiale si rendeva necessario un autorizzazione governativa preventiva. RDF