domenica 7 agosto 2011

Storia - un sanguinoso attentato sulla strada dell'unificazione dell'Italia

I 150 anni dell'Unità dell'Italia



Articolo in parte pubblicato su Storia in Rete del 2009
Testo di Roberto Di Ferdinando

Parigi, 14 gennaio 1858, i giornali della mattina hanno annunciato che anche l’Imperatore Napoleone III e sua moglie, Eugenia de Montijo, in serata assisteranno alla rappresentazione di opere italiane che si terrà all’Opéra di rue La Peletier, presso il boulevard des Italiens. I parigini si riversano così per le strade per assi-stere al passaggio del corteo imperiale che dalle Tuileries porterà i sovrani al teatro.
Sono passate da poco le ventuno quando la sfilata svolta dal boulevard e si affaccia in rue Le Peletier; in testa vi è la carrozza degli ufficiali imperiali, quindi la scorta dei lancieri che precede e segue la vettura su cui siedono l’Imperatore, l’Imperatrice ed il generale Roquert, aiutante militare del sovrano. Presso l’ingresso del teatro il picchetto d’onore presenta le armi e i tamburi iniziano a rullare, ma mentre il corteo rallenta, per accedere in rue Rossini, la via riservata all’entrata dell’Opéra, si odono tre forti colpi, i testimoni parleranno di tre cannonate. La strada cade nel buio, i lumi a gas sono spazzati via, si sentono urla di dolore e grida di paura, la gente fugge, i cavalli impauriti e feriti scalciano senza che si riesca a controllarli, la strada è invasa dai detriti delle vetrate mandate in pezzi dalle esplosioni. Alla luce delle torce si presenta una scena terribile di morti e feriti. La carrozza imperiale è trafitta da numerose schegge, un cavallo è rimasto decapitato, men-tre l’altro ferito cerca invano di liberarsi, ma i due sovrani sono illesi, tranne alcune escoriazioni sul viso di entrambi dovute ai cristalli frantumati. Napoleone III ha il suo copricapo bucato, si accerterà in seguito, da un pezzo di ghisa. Si pensa che l’Imperatore abbia avuto la vita salva nell’avvicinarsi della carrozza al teatro, in quanto in conversazione con il generale Roquert; infatti il suono dei tamburi, impedendogli di sentire lo aveva spinto ad avvicinarsi ed abbassarsi verso il militare, riparandosi così involontariamente dalle esplosioni.
Alla fine i morti furono 12 e 156 i feriti. Il Prefetto di Polizia di Parigi, Pietri, informò l’Imperatore che nell’attentato erano state impiegate tre sfere esplosive, mentre una quarta era stata rinvenuta inesplosa in rue Rossini; e che al momento erano stati fermati alcuni sospettati, ma era ancora troppo presto per fare chiarezza sui responsabili ed i motivi dell’attentato.
Invece all’alba del giorno successivo quattro emigrati politici italiani: il romagnolo Felice Orsini, mente del complotto, il lucchese Giuseppe Andrea Pieri, il bellunese Carlo di Rudio ed il napoletano Antonio Gomez, furono rinchiusi nel carcere parigino di St. Mazas, con l’accusa di essere i responsabili della strage e del tentato regicidio.

I motivi dell’attentato
Dalla primavera del 1856 Felice Orsini, dopo esser evaso dal carcere austriaco di Mantova, dove era stato rinchiuso per la sua attività di cospiratore mazziniano, aveva trovato rifugio a Londra. Durante la prigionia però Orsini aveva compreso tutti i limiti della strategia di Mazzini, infatti non si poteva pensare che le iniziative isolate di pochi patrioti potessero favorire l’insurrezione delle province italiane e l’indipendenza della penisola. Per Orsini quindi la questione era politica e fece appello al Regno di Sardegna perché risolvesse la questione italiana. A tal fine il 31 marzo 1857, da Edimburgo scrisse a Cavour una lettera: “ […] Convinto per triste esperienza che senza grandi mezzi non si può cacciare dall’Italia un nemico potentemente organizzato, convinto che i parziali e meschini movimenti valgono soltanto a smembrarci, a farci deboli e a dar luogo a recriminazioni, per dovere altamente sentito io sono pronto a dar mano a quel governo italiano (che non sia papato) il quale metta a disposizione della nazionale indipendenza i suoi mezzi e la sua armata […] io mi reputerò felice di prendere di nuovo le armi contro coloro che un anno fa si apprestavano a darmi la morte, contro coloro che opprimono la mia Patria […]”. Era un attacco allo Stato Pontificio, che grazie all’aiuto mili-tare delle cattoliche Austria e Francia opprimeva le regioni dell’Italia centrale dove Orsini era nato e aveva combattuto per la loro indipendenza, ed all’operato delle società segrete. La collaborazione tra Mazzini ed Orsini si stava concludendo. Orsini infatti voleva essere finalmente libero, indipendente. Dopo il dispotismo monarchico non avrebbe accettato quello cospirativo, e dopo l’evasione di Mantova non gradiva più svolgere il semplice ruolo di esecutore di ordini.
Cavour però non rispose all’appello di Orsini, che fu così spinto ad agire da solo, con un gesto clamoroso, quale l’uccisione di Napoleone III. Eppure Orsini nei suoi scritti aveva sempre respinto l’assassinio politico, ritenendolo uno strumento inutile alla causa italiana. Certamente questo cambiamento di strategia dipese dalle influenze che subì negli ambienti repubblicani presenti a Londra, in particolare da Simeon Bernard.
Bernard, francese di Carcassone, per molti anni chirurgo della marina francese, nel 1848 divenne capo di un club repubblicano. Nel 1849 per evitare il carcere, in seguito a discorsi politici tenuti in pubblico, che in quegli anni erano vietati in Francia, fuggì a Londra dove il diritto di asilo avrebbe tutelato lui e molti altri democratici e repubblicani, che da molti paesi trovavano in Inghilterra rifugio. Gli esuli erano soliti ritrovarsi a Londra presso il Cafè Suisse, in Tchbourne Street, ed è qui che Bernard, durante una delle sue quotidiane esposizioni di piani politici per il futuro repubblicano dell’Europa, nell’autunno del 1856, entrò in contatto con Orsini. I due strinsero amicizia e Bernard divenne suo consigliere. Lo accompagnò nel giro di conferenze che il romagnolo compì per l’Inghilterra per trovare sostegno e fondi per la lotta d’indipendenza italiana, lo aiutò nella redazione delle sue memorie (“Memories and Adventures”, pubblicate in Italia nel 1858 con il titolo di Memorie Politiche) e lo sostenne nella critica a Mazzini. Bernard era uno spirito indipendente e non poteva accettare il sistema mazziniano; convinse quindi Orsini a non essere uno strumento in mano al genovese, ma così Orsini lo diventò di Bernard. Orsini non era una persona facilmente influenzabile, aveva sempre rivendicato la propria autonomia, ma è innegabile che il francese contribuì a spingerlo a compiere l’attentato, approfittando del suo desiderio d’azione e della sua volontà di dimostrare al rivale Mazzini la possibilità di compiere un gesto clamoroso e finalmente decisivo per il destino libero dell’Italia. E’ in questo clima che si prepara l’attentato a Napoleone III.
Orsini e Bernard non volevano solo condannare a morte l’Imperatore per essere intervenuto con il suo eser-cito a Roma nel 1849, provocando la caduta della repubblica romana, a cui Orsini partecipò, e quindi restituireal Papa il suo potere temporale. Il regicidio infatti rientrava in un ampio piano politico: la morte di Napoleone III avrebbe favorito la nascita di una repubblica in Francia che avrebbe a sua volta tolto l’appoggio al Papa, agevolando così prima l’insurrezione nelle regioni centrali della penisola italiana, e poi trascinando all’indipendenza il resto del paese. Il limite di questo piano stava nella visione che i due cospiratori avevano della Francia, come di un paese che subiva un odiato regime dispotico. Mentre non si ricordavano che Luigi Napoleone grazie a tre plebisciti era prima nel 1848 diventato Presidente della Repubblica e poi nel 1852 Imperatore con il nome di Napoleone III. Certamente a Parigi non vi era un regime democratico, ma Napoleone III poteva contare su un ampio consenso interno, in particolare dei clericali, ed una repubblica francese non era ancora prevedibile.
Comunque l’uccisione dell’Imperatore non era una novità per gli ambienti della cospirazione; già nel 1855 il mazziniano Pianori attentò la vita di Napoleone III, fallendo. Cosi come nel 1857, il progetto di ucciderlo fu intrapreso da Paolo Tibaldi, ma il piano fu scoperto prima di essere attuato. Orsini voleva quindi anche dimostrare di poter portare a successo personalmente una clamorosa operazione in cui molti avevano fallito: “Farò vedere io a costoro come si organizzi sul serio un attentato, che raggiunga la mira, e non dia solo materia a processi burla […] Mazzini e Ledru Rollin (i pianificatori dell’attentato di Tibaldi) che armano le mani di volgari esecutori, invece di perigliarsi in prima persona al gran gesto del tirrannicidio, impareranno com’io non lesini la mia vita […] Mazzini ed i suoi non sanno uscire dalla routine del classico rugginoso pugnale, io sarò moderno, terribile, applicando le macchinette infernali, esposte incautamente alla curiosità dei visitatori in un museo del Belgio… e perfezionato con appositi esperimenti dal dottore Simone Bernard”. Orsini per la prima volta parlò dell’impiego nell’attentato di nuovi strumenti di offesa dalla potenza distruttiva fino allora scono-sciuta, quale una sorta di primitiva bomba a mano, che da allora prendera il nome di bomba all’Orsini.

I complici
Oltre a Bernard ed Orsini il gruppo dei cospiratori era costituito da altri fuorusciti italiani, che però furono spinti a parteciparvi esclusivamente per interessi economici e di fama, non certamente per ideali politici.
Giuseppe Andrea Pieri nel 1857 ha cinquant’anni, da giovane era stato arrestato in Italia per piccoli furti; do-po alcuni anni di carcere si era trasferito in Francia, a Lione, e qui aveva messo su famiglia. Nel 1848 ritornò nuovamente in Italia per porsi al servizio del Granduca di Toscana, Leopoldo II, come ufficiale. Con lo scop-pio dei moti rivoluzionari del 1848 e la fuga del Granduca partecipò alla formazione del governo provvisorio repubblicano. La restaurazione di Leopoldo II, nel 1849, però lo espulse dalla Toscana e lo costrinse a rien-trare in Francia, dove nel 1852, dopo essere stato condannato per truffa, fu raggiunto da un decreto di e-spulsione in seguito alle epurazioni messe in atto per la nascita dell’Impero. Pieri, ormai noto alle polizie di quasi tutta Europa, fuggì in Inghilterra, a Birmingham, dove entrò in contatto con gli ambienti degli esuli ita-liani, in particolare con Orsini, che conosceva già dai tempi dei moti del 1848 in Italia.
Antonio Gomez, che invece nel 1857 ha ventisei anni, aveva avuto un’esperienza nella legione straniera ad Algeri. Nel 1856 giunse a Londra per fuggire da una condanna in Francia e conobbe Bernard; grazie alla comunità italiana ed all’interessamento di Orsini trovò lavoro come domestico da italiani o come garzone presso locali gestiti da italiani. Bernard lo inviò a Birmingham dal Pieri perché quest’ultimo attestasse la fe-deltà per l’attentato.
Carlo di Rudio, appartenente ad una nobile famiglia, nel 1857 ha 27 anni. Nel 1848 a Milano abbandonò la scuola militare per partecipare come volontario alla difesa delle repubbliche di Venezia e Roma. Conobbe per la prima volta Orsini durante l’insurrezione della Valtellina nel 1854, dopo di che lasciò l’Italia per trovare rifugio in Svizzera, Spagna ed Inghilterra, e qui risiedette a Birmingham. Sposò la quindicenne inglese Elisa Both, si trasferì a Nottingham e poi a Londra, dove rincontrò Orsini ed accettò il suo piano, spinto da neces-sità economiche. Bernard gli promise che sua moglie, durante la sua assenza, avrebbe ricevuto 14 scellini la settimana.

La preparazione dell’attentato
Il piano del regicidio fu realizzato durante incontri tra i cospiratori presso il londinese Cafè Cigar Divan, sem-pre in centro, ma più riservato, gestito da un esule francese. Era stato volutamente abbandonato il Cafè Suisse, in quanto conosciuto come centro d’incontro di esuli e poteva essere sottoposto a controlli della polizia; Orsini inoltre volle quasi far crede, con l’abbandono del tradizionale luogo di riunione, di aver abbandonato la politica dopo la delusione della mancata risposta di Cavour alla sua lettera ed alla rottura definitiva con Mazzini.
Abbiamo visto precedentemente che fu Orsini ad avanzar l’idea di utilizzare per l’attentato dei nuovi ordigni, delle bombe che nell’urto si sarebbero spezzate in migliaia di schegge appuntite, che lui stesso aveva potuto osservare in un museo di Bruxelles. Ne fece così il disegno e dettò le caratteristiche al fabbricante. Si ritiene invece che l’impiego dell’esplosivo fu voluto da Bernard il quale disegnò il modello, poi contattò un suo amico rivoluzionario, il londinese Thomas Allops, di incaricare un ingegnere di Birmingham, di nome Taylor, per la costruzione delle bombe. Taylor successivamente dichiarò agli investigatori di aver realizzato sei contenitori di ghisa di un chilo e duecento grammi l’uno, di cui due di dimensioni più piccole, che poi sarebbero stati riempiti con la sostanza esplosiva, ma sul luogo dell’attentato furono portare solo cinque bombe. Molto probabilmente la sesta fu provata nelle campagne londinesi. Infatti dalla frontiera tra l’Inghilterra ed il Belgio fu registrato il passaggio di 10 semisfere, le quali ricomposte avrebbero formato poi cinque bombe. Gli ordigni infatti furono innescati a Parigi per evitare che esplodessero durante il viaggio.
Nel dicembre 1857 le bombe furono trasferite dall’Inghilterra in Belgio, tramite Giuseppe De Giorgi, un italia-no che per motivi di affari doveva recarsi al Cafè Suisse di Bruxelles; ma lo stesso non seppe mai il contenuto del pacco consegnatoli, e la sua buona fede fu confermata anche in sede processuale. Gli agenti della dogana registrarono le dieci semisfere come “apparecchiatura destinata ad un nuovo sistema d’illuminazione”. Al De Giorgi fu detto che al Cafè avrebbe dovuto consegnare il pacco ad un inglese di nome Allsop. Orsini, che aveva trentotto anni, ricevette da Bernard un passaporto a nome del sessantenne Allops, commerciante di birra, e si recò il 28 novembre a Bruxelles, alloggiando all’Hotel de l’Europe in Place Royal. Il 1 dicembre fu raggiunto nella capitale belga dallo stesso Bernard per studiare gli ultimi particolari. Orsini (Allops) incontrò De Giorgi a Bruxelles, e nonostante il romagnolo si fosse tagliato la barba, fu riconosciuto dall’uomo d’affari. I due infatti avevano frequentato a suo tempo il Cafè Suisse di Londra, ma De Giorgi non si fece molte domande sulla questione e lasciò il pacco.
Orsini a Bruxelles aveva acquistato un cavallo bianco che consegnò a Casimiro Zeighers, garzone di scude-ria, conoscente di De Giorgi, perché lo trasferisse a Parigi. Insieme al cavallo gli fu affidata una cassetta degli attrezzi nella quale era stato nascosto l’esplosivo. L’11 dicembre i due partirono in treno per Parigi, Orsini in prima classe, il garzone, ignaro di ciò che stava trasportando, in terza, mentre Bernard tornò a Londra. Il 12 dicembre Orsini e Zeighers alloggiarono all’Hotel de Lille et D’Albion in rue Saint-Honoré per poi il 15 dicembre, rimasto solo, trasferirsi al numero 10 di rue Mont Thabor. Qui Orsini procedette a realizzare gli ordigni, le semisfere furono infatti sigillate e fu versata al loro interno la sostanza esplosiva, oltre un chilo di fulminato di mercurio. Questa sostanza, preparata certamente da Bernard, che aveva conoscenze di chimica, poteva essere trasportata solo umida. Giunto a Parigi, Orsini la essiccò di fronte al camino attento che la temperatura della stanza non salisse e che le scintille non innescassero l’esplosione. Inoltre Orsini a Bruxelles aveva ricevuto da Bernard anche un revolver ed un pugnale che avrebbe dovuto utilizzare eventualmente per coprirsi la fuga dopo l’attentato. Queste armi furono date anche agli altri cospiratori, che nel frattempo si stavano muovendo verso Parigi. Carlo di Rudio venne fornito di un passaporto da Bernard con il nome di Da Silva, commerciante portoghese, ed il 10 gennaio raggiunse, all’Hotel de France et de Champagne, in rue Montmartre, il Pieri. Pieri infatti con passaporto al nome di Pierey e Gomez con quello a nome di Peter Bryan Swjnei, istruiti da Bernard, il 7 dicembre erano giunti a Lilla. Gomez vi rimase fino a gennaio, mentre Pieri andò a Bruxelles. Qui il lucchese si mise in contatto con alcuni suoi conoscenti, in particolare con la tedesca Rosina Hartamann, domestica in Belgio. Pieri non riuscì a nasconderle, per vantarsi, che presto avrebbe partecipato ad un atto clamoroso e pericoloso in Francia, nel quale forse avrebbe potuto anche perdere la vita, ma che lo avrebbe certamente reso famoso. La domestica tedesca, conoscendo da tempo il Pieri, le sue attitudini ed amicizie, informò di ciò la sua padrona, che non perse tempo ad avvertire la polizia belga. Questa mandò alla gendarmeria francese una nota informativa sull’accaduto, ma ciò non impedì al Pieri di entrare nuovamente in Francia, di recarsi a Lilla e da qui, assieme a Gomez, di arrivare a Parigi l’8 gennaio.

L’attentato
Tra le ore 18 e 19 del 14 gennaio, Pieri, Gomez e di Rudio si trovarono a casa di Orsini. Ad ognuno furono consegnati una pistola, un coltello ed una bomba. Ad Orsini due, le più piccole. I congiurati raggiunsero l’Opéra in rue Le Peletier, e si posizionarono all’angolo di rue Rossini, nascondendosi tra la folla distanti una decina di metri l’uno dall’altro. Poco dopo Orsini però si accorse che Pieri non era nella sua postazione, lo intravide infatti in compagnia di una persona, e pensò in quel momento, data la scarsa fiducia che aveva nel lucchese, ad un tradimento. Ma non fu così. Pieri infatti mentre si stava avvicinando alla sua postazione pre-stabilita incappò nel commissario di polizia Herbert. Questi era fuori servizio, ma aveva riconosciuto il Pieri, infatti lo aveva arrestato in passato per truffa e sapeva che era soggetto ad un decreto di espulsione e non poteva rientrare in Francia. Pieri fu condotto al commissariato, gli fu trovato in dosso l’ordigno e le armi, il tutto fu collegato alla informazione proveniente dalla polizia belga e si pensò che Pieri avrebbe voluto attentare all’Imperatore. Gli investigatori non approfondirono però se l’attentatore avesse avuto dei complici, così non fu sospeso il corteo imperiale che in quegli istanti stava lasciando le Tuileries.
Sebbene senza Pieri, Orsini ritenne che l’operazione si potesse portare comunque a conclusione con suc-cesso. Nel momento in cui la carrozza imperiale s’immise in rue Rossini, Gomez lanciò la prima bomba, di Rudio la seconda e Orsini la terza, una delle tre scoppiò tra i cavalli della carrozza imperiale. Approfittando della confusione Gomez si rifugiò nella trattoria italiana Brogi, che si trovava di fronte al teatro. Era sconvol-to, impaurito e sperava di trovare Orsini; cercò di nascondere sotto un mobile la pistola che aveva, ma quando la polizia entrò nella trattoria per ottenere testimonianze, lo strano atteggiamento dell’italiano fu subito notato. Alle domande della polizia rispose singhiozzando, con frasi incoerenti, disse di essere inglese, cercò anche di parlare un francese con accento inglese, ma con patetici risultati, e di essere un domestico alle dipendenze di un certo Allops. Fu così portato al commissariato. Dopo due ore crollò rivelando i nomi dei suoi complici e l’indirizzo dei loro rifugi. Di Rudio si era rifugiato in un altro locale e dopo poco si recò a casa e si mise a letto; qui fu trovato dalla polizia poco prima dell’alba. Orsini invece, in seguito alla terza esplosione, era rimasto ferito ad una guancia da cui perdeva molto sangue. Infatti nelle prime due deflagrazioni fu protetto dalle persone che gli erano davanti, ma alla terza esplosione queste erano cadute ferite rimase così esposto alla furia esplosiva della sua stessa bomba.
Orsini ferito, presso un portone di rue Rossini abbandonò, avvolto in un panno di seta, la quarta bomba e la sua pistola. Entrò nella farmacia della vicina rue Laffitte e si fece medicare. Bendato si recò a casa sua e anch’esso si mise a letto. Qui fu trovato dalla polizia che lo arrestò poco dopo di di Rudio. Dopo sette ore dall’attentato i responsabili erano già stati tutti presi.

Il processo
Il processo si svolse a Parigi in due giorni il 26 e 27 febbraio 1858. Nelle loro deposizioni Gomez, Pieri e di Rudio accusarono Orsini della completa organizzazione dell’attentato, e si giustificarono dichiarandosi come pedine in sue mani. Orsini invece non si sottrasse alle proprie responsabilità e riuscì, grazie anche all’abilità del suo avvocato, il repubblicano Jules Favre, a trasformare il processo in un dibattimento politico, portando in aula la questione italiana. La difesa si concentrò nel dare ad Orsini l’immagine non di un comune criminale, ma di un patriota. Infatti si presentava con un aspetto nobile, maniere distinte, calmo e sicuro. La figura di guerriero ed avventuriero per la propria patria attrasse parte della nobiltà parigina. L’ambasciatore austriaco Von Hübner, nel suo diario annotava: “Tutte le gran dame hanno perso la testa per lui. La stessa Imperatrice si è entusiasmata di questo assassino in guanti gialli”. Il fascino della figura di Orsini non lasciò così indifferente neanche la coppia dei sovrani. Napoleone III rimase infatti positivamente colpito dalla lettera che Orsini gli inviò, tramite il suo difensore, l’11 febbraio 1858, nella quale sconfessava l’assassinio politico ed invitava l’Imperatore a rendere all’Italia l’indipendenza perduta nel 1849 per colpa dei francesi. La lettera fu letta da Favre ai giudici, e fatta poi pubblicare dal Napoleone III su Moniteur, l’organo di stampa del regime. Quest’atteggiamento fece sospettare di un avvicinamento della Francia alla causa italiana, tanto che l’ambasciatore austriaco, che invece dopo l’attentato aveva creduto in un miglioramento dei rapporti tra Francia ed Austria, notava: “I ministri nell’imbarazzo di trovare per il loro capo una scusa che sia appena ac-cettabile, se la prendono con la stupidità del Presidente del Tribunale, Delangle, che ha permesso a Favre di fare politica in udienza, invece di toglierli la parola e richiamarlo all’argomento della causa […], ma Delangle è un uomo di grande intelligenza. C’è del losco in questa faccenda […]”.
Il 27 febbraio fu emessa la sentenza; Orsini, Pieri e di Rudio furono condannati a morte, con sentenza da eseguire il 13 marzo successivo, Gomez, anche per la sua collaborazione con l’autorità, fu condannato all’ergastolo. L’esecuzione sarebbe stata la stessa del parricida, prevista dall’articolo 13 del codice penale: Il colpevole condannato a morte dovrà essere condotto sul luogo dell’esecuzione in camicia, a piedi nudi e con la testa coperta da un velo nero. Il 27 i condannati furono trasferiti alle prigioni della Conciergerie, alla Roc-quette, la prigione dei condannati a morte.
Dal dibatimento era uscito il ruolo non secondario di Bernard nella pianificazione dell’attentato. Il Procuratore Generale del Tribunale Chais d’Est Ange, intuì che il francese fosse il responsabile morale del delitto, l’anima del complotto, ma non fu condannato. Bernard riuscì ad approfittare del diritto d’asilo che l’Inghilterra gelosamente riconosceva a chi risiedeva sul proprio territorio. Bernard comunque fu interrogato dagli investigatori inglesi e riuscì a mettere loro dubbi sulla sua partecipazione all’attentato. Infatti Taylor, il costruttore delle bombe, dichiarò che i contenitori che aveva costruito avevano 35 fori, mentre Bernard confermò che il suo disegno degli ordigni prevedeva un numero inferiore di fori e che dovevano essere impiegati da Orsini per un attentato in Italia. Così convinse gli investigatori che Orsini aveva contattato Allsop, amico di Taylor, perché costruisse altre bombe, quelle con 35 fori, da impiegare contro Napoleone III. Bernard poté contare su quest’alibi, in quanto Allsop, l’unico a poter confermare tale versione, scomparve dopo l’attentato e di lui non si seppe più nulla.
Eppure testimonianze dirette, riportate dallo storico Luzio, riferiscono che Bernard era a conoscenza del pia-no, infatti il francese l’11 gennaio 1858, a Londra mentre discuteva con altri esuli, riferì che il giorno succes-sivo Orsini avrebbe reso un favore all’Europa repubblicana. L’attentato fu invece commesso il 14; molto probabilmente Orsini lo rinviò attendendo il momento propizio.
L’11 marzo il tribunale esaminò il ricorso avanzato dai difensori, furono confermate le sentenze per Orsini e Pieri, mentre quella di di Rudio, grazie all’interessamento dell’Arcivescovo di Parigi e dell’ambasciatore au-striaco (di Rudio era di Belluno, sotto l’autorità austriaca), fu commutata in carcere a vita. Nello stesso giorno Orsini fece recapitare all’Imperatore una seconda lettera, sulla cui autenticità vi sono però dei dubbi, in cui ribadì la condanna del delitto politico e sperava con la propria morte di rendere giustizia ai morti innocenti del14 gennaio. Napoleone chiese a Cavour che questa lettera fosse pubblicata, il 31 marzo, sulla Gazzetta del Piemonte come testamento politico di Orsini.
Napoleone III non sarebbe stato contrario a concedere la grazia ad Orsini, dopotutto l’Imperatore aveva co-nosciuto da vicino le vicende italiane, partecipando ai moti del 1831 dalla parte dei liberali e durante il pro-cesso aveva manifestato una certa indulgenza verso il suo attentatore. Ma in Francia gli ambienti politici so-stenevano che in rue Le Peletier era stato versato sangue francese, ed il popolo non avrebbe mai accettato che i responsabili non fossero puniti. Napoleone, il cui trionfo politico era dipeso dai plebisciti popolari, non poteva andare contro l’opinione pubblica e non si oppose all’esecuzione.
Il 13 marzo i due condannati a morte ebbero due modi diversi di affrontare la morte, Pieri, tremante, sussur-rò, la Canzone dei Girondini “Quando si muore per la Patria…”, mentre Orsini con passo fermo si avvicinò alla ghigliottina e curvandosi sotto la mannaia gridò “Viva l’Italia! Viva la Francia!” Nel suo testamento, prima della sentenza, Orsini aveva chiesto di essere seppellito a Londra, al cimitero di Chiswick, il suo corpo fu invece tumulato a Parigi, nel cimitero di Montparnasse, in una fossa comune.
Gomez e di Rudio furono trasferiti nel carcere della Caienna, nella Guyana francese, e dopo alcuni anni fu-rono graziati. Di Gomez non si seppe più nulla, mentre di Rudio nel 1864 emigrò definitivamente negli Stati Uniti a Los Angeles.
L’attentato di Orsini non fu determinante nel far cambiare a Napoleone III la sua posizione verso la questione italiana, ma di certo l’accellerò; infatti il 22 luglio 1858 a Plombiéres in gran segreto l’Imperatore accolse Ca-vour e fu stipulato un accordo-alleanza tra Francia e Regno della Sardegna in funzione antiaustriaca.

Il mistero del quinto complice
Durante il dibattito processuale Orsini si dichiarò il responsabile morale dell’attentato, ma non il responsabile materiale. Orsini infatti sostenne sempre con forza che la terza bomba all’Opéra non fu lanciata da lui, che la lasciò invece in rue Rossini, ma da un quinto misterioso complice, la cui presenza, per il buon risultato della missione, era stata celata da Orsini agli altri cospiratori. Ma il rifiuto di Orsini di dichiarare, anche al suo avvocato, l’identità di questo complice, spinse i giudici a ritenere quest’atteggiamento quale estremo tentativo di difesa. Quindi il fatto non fu approfondito più del dovuto. Questa dichiarazione di Orsini inoltre sarebbe stata dimenticata se il 9 agosto del 1908 il giornale Il Resto del Carlino non avesse pubblicato un intervista a di Rudio, nella quale si feceva una clamorosa rivelazione. Di Rudio ricordò che quel 14 gennaio 1858, mezz’ora prima dello scoppio del primo ordigno, mentre lui ed Orsini si stavano recando in rue Le Peletier, un uomo con due grossi baffi fermò Orsini chiedendogli come andasse la faccenda, se tutto fosse a posto, al che Orsini, dimostrando di conoscerlo, rispose che tutto andava bene. I due si strinsero la mano, dopo di che l’uomo con i baffi si allontanò. Di Rudio riferì ad Orsini di aver riconosciuto in quell’uomo Francesco Crispi, (allora mazziniano, esule in Francia dal 1849, ma in futuro Ministro e Presidente del Consiglio del regno d’Italia), Orsini si sorprese che di Rudio conoscesse Crispi. Di Rudio nell’intervista non disse però di aver visto quest’uomo lanciare la terza bomba.
I biografi dello statista però ricordano che in quel periodo Crispi non aveva i baffi, ed inoltre era un fedele mazziniano e non poteva essere in buoni rapporti con Orsini che si era definitivamente separato dal maestro genovese. Il nome di Crispi però non era la prima volta che compariva legato alla vicenda di rue Le Peletier. Infatti la polizia lo aveva fermato nelle ore successive all’attentato, ma subito liberato, per poi essere espulso dall’Impero nell’agosto del 1858 in seguito ad una più dura legislazione antirepubblicana. Gli storici sono convinti dell’estranietà di Crispi a questa cospirazione, sebbene non manchi una letteratura di complotti e misteri, ed è inoltre poco attendibile la presenza di un quinto complice sulla scena dell’attentato, forse arruolato da Orsini tra i carbonari di Nizza. Invece, molto probabilmente, Orsini dopo aver lanciato la terza bomba e rimasto ferito, non volle lanciare la quarta, in quanto senza la protezione delle persone che gli erano davanti, avrebbe rischiato la vita e così decise di abbandonare per strada l’ordigno.
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L’avventurosa vita di Felice Orsini

Felice Orsini nasce a Meldola (Forlì) nel 1819. Giovanissimo, rimasto orfano di madre viene inviato dal padre, veterano napoleonico, a Imola presso lo zio Orso che si preoccuperà della sua educazione. Ma lo spirito di avventura e d’azione inizierà subito a manifestarsi nel giovane. Nel 1831 tenta invano di fuggire ad Ancona per arruolarsi con i francesi, pensando che stessero arrivando per liberare la Romagna dal potere del Papa. Nel 1835 è responsabile della morte del cuoco di famiglia, Domenico Spada. La versione ufficiale di questo fatto, raccolta dalla polizia vaticana, riporta che il delitto fu involontario. Mentre Felice stava pulendo una rivoltella accidentalmente partì un colpo che ferì mortalmente Spada. Ma non mancarono dubbi sull’accaduto, infatti, testimoni riferirono di accesi contrasti tra Spada e Felice, ma di tutto ciò non fu tenuto conto. Lo zio Orso grazie anche all’interessamento del Vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti, futuro Pio IX, riuscì ad ottenere una condanna lieve per suo nipote, di sei mesi, ma con l’impegno che il giovane prendesse i voti. Felice chiese di entrare nel noviziato gesuitico, ma ben presto ne uscì per motivi di salute, reali o meno restano dei dubbi. Nel 1844 a Bologna si addottorò in Legge e Filosofia, e qui entrò in contatto con affiliati delle società segrete. Il primo maggio 1844 per cospirazione fu arrestato e condannato al carcere a vita, ma ancora una volta salvato da Mastai Ferretti, infatti la sua nomina a Papa nel 1846 permise ad Orsini di godere dell’amnistia. Si trasferisce in Toscana, ma qui vi rimarrà poco, infatti sempre nel 1848 durante i moti rivoluzionari, combatte nel Veneto come capitano della Legione dei Volontari contro gli austriaci. E’ deputato alla Costituente romana nel febbraio 1849, ma la repressione della Repubblica Romana voluta dalla Francia di Luigi Napoleone lo costringerà alla fuga ed all’odio contro gli invasori stranieri.
Aderisce all’ambiente della cospirazione avvicinando Mazzini, che lo incarica, tra il 1853 ed il 1854, di dirigere numerosi moti insurrezionali (Sarzana, Magra, Valtellina e Milano) tutti poi falliti.
Il 17 dicembre 1854 è arrestato ad Hermannstadt (Transilvania) dalla polizia austriaca, è trasferito prima a Vienna e poi nel carcere di Mantova. L’evasione del 30 marzo 1856 lo renderà famoso nel mondo della cospirazione e contribuirà a creare quella figura di avventuriero che affascinerà la nobiltà francese durante il processo di Parigi. Orsini tentò l’evasione prima entrando in confidenza con i suoi carcerieri, somministrando loro della droga, che gli era giunta in cella dentro i bottoni di un cappotto consegnatogli da una sua confidente, Emma Herwegh di Zurigo. Fallito questo tentativo, riuscì ad ottenere il trasferimento in una cella più tranquilla dove poté segare le sbarre grazie a delle lime nascoste nella copertina di un libro procuratogli dalla stessa dama. Dopo aver segato le sbarre, con il materasso fece delle strisce di stoffa e si calò dalla finestra e complici a terra lo portarono in un luogo sicuro.
Nei primi mesi del 1857 Orsini si rifugia a Londra, dove oltre a pubblicizzare la causa italiana e, in contatto con i fuorusciti italiani, a preparare l’attentato a Napoleone III, scrisse e tradusse in inglese le sue Memorie (Memories and Adventures). Solo dopo l’attentato questo suo scritto riuscì a trovare un editore-stampatore; infatti il 17 gennaio 1858, a Torino uscì il volume dal titolo Memorie Politiche, edito da Degiorgi. Andò esaurito. Tra i suoi lettori ci fu anche l’Imperatrice francese Eugenia. Furono inoltre pubblicate altre edizioni con un appendice di Ausonio Franchi (pseudonimo di Francesco Bonavino, direttore del giornale “La Ragione”, ex mazziniano, nel 1857 aveva preso le difese di Orsini contro le accuse che quest’ultimo riceveva dagli ambienti mazziniani) nel marzo, maggio e ottobre 1858.

Le cospirazioni del futuro Imperatore

Nei giorni successivi all’attentato a Napoleone III, negli ambienti della cospirazione italiana, si ritenne l’atto di Orsini una specie di punizione contro l’Imperatore per aver tradito la promessa fatta nel 1831 alla Carboneria.
Infatti Luigi Napoleone, ventiduenne, (nel dicembre 1852 con un plebiscito verrà nominato Imperatore di Francia con il nome di Napoleone III) nel 1831 si trovava, da quasi un anno, con sua madre Ortensia (figlia di Giuseppina Beauharnais) a Roma, mentre suo fratello maggiore, ventisettenne, Napoleone Luigi, era in Toscana presso suo padre Luigi (fratello di Napoleone Bonaparte). La legge francese continuava ad impedire il ritorno in Francia della famiglia Bonaparte. I due fratelli non erano certamente affiliati alla carboneria, ma conoscevano in Italia, membri della cospirazione ed erano sollecitati da questi a mettersi a capo di un movimento insurrezionale che stava preparando dei moti nello Stato Pontificio e nel Ducato di Modena. Le autorità vaticane, che tenevano sotto controllo Luigi Napoleone, consigliarono sua madre di allontanarlo da Roma per raggiungere il padre ed il fratello a Firenze. Ma i due fratelli Bonaparte entrarono ben presto in contatto con un ricco industriale di Modena, Ciro Menotti, capo del partito liberale, che ottenne da loro l’adesione al movimento insurrezionale in Emilia, e con l’altro capo della rivolta, il colonnello Pietro Damiano Armandi, precettore di Napoleone Luigi. I fratelli Bonaparte, anche per il nome che portavano, decisero di porsi a capo dell’insurrezione nello Stato Pontificio, nella speranza che la Francia intervenisse in favore dei liberali e contro il possibile intervento degli austriaci, questi sollecitati dal Papa. Ma mentre si recavano verso Roma, a Spoleto ed a Terni furono accolti da bande di contadini armati che li sollecitarono a diventare loro capi. Luigi Napoleone giunse ad occupare Civita Castellana.
Nel febbraio 1831 mentre le province dell’Emilia Romagna, delle Marche e del Lazio erano in rivolta, a Roma gli altri membri della famiglia Bonaparte erano preoccupati per la sorte dei principi, infatti se fosse intervenuta l’Austria la sua repressione sarebbe stata durissima ed i due fratelli avrebbero rischiato la vita. Intanto l’atteso aiuto della Francia sarebbe mancato per la scelta isolazionista del re francese Luigi d’Orleans; a Bologna i deputati delle province insorte erano incerti sul da farsi. Infatti continuare ad accettare la guida dei principi alla rivolta significava spingere l’Austria ad intervenire rapidamente perché Vienna non avrebbe atteso molto, di fronte a nuovi Bonaparte, a reprimere l’insurrezione. Occorreva quindi convincere i due Bonaparte, nel frattempo accorsi in Romagna, a cedere la guida della rivolta, dopo che si era insistito ad invitarli. Fu incaricato l’amico di famiglia Armandi a dire ai fratelli di ritirarsi. I due giovani indignati, capirono però la situazione e si rifugiarono prima a Ravenna e poi a Forlì. Avrebbero voluto combattere come volontari ad Ancona, che avrebbe di lì a poco subito l’invasione austriaca, ma anche quest’offerta fu respinta. A Forlì si trattennero alcuni giorni. Napoleone Luigi non era in buona saluta, si diceva per gli sforzi dei combattimenti e si rendeva così necessario un periodo di riposo. Intanto la madre Ortensia, informata dell’avvicinamento dei suoi figli ai cospiratori aveva compreso il rischio che stavano correndo e si era recata a Firenze per fermarli, ma era stata anticipata dall’iniziativa militare dei fratelli. A Firenze, grazie all’interessamento del Ministro inglese Lord Seymoun, ricevette un passaporto intestato al nome di signora Hamilton e il 10 marzo 1831, saputo che i suoi figli si trovavano in Romagna, partì per Forlì dove arrivò il 19 marzo, ma seppe che i due, per sfuggire agli austriaci che avevano occupato la città, si erano trasferiti a Pesaro. Qui apprese da Luigi Napoleone che l’altro suo figlio era morto a Forlì il 16 marzo; la stanchezza che lo perseguitava era il sintomo della rosolia, che da settimane infestava la regione. Madre e figlio sapevano però che dovevano continuare la fuga per evitare l’arresto e si recarono ad Ancona presso il palazzo del nipote, il duca di Leuchtenberg. Da qui sarebbero partiti per giungere a Corfù. Ma Luigi Napoleone, giunto ad Ancona cadde malato di rosolia, il viaggio non poteva farsi. Gli austriaci avevano posto sotto controllo il mare adiacente la costa. Essendo l’unica via quella che portava in Francia, Ortensia, avrebbe cercato di rientrare in patria con il benestare del re Luigi d’Orleans per poi raggiungere l’Inghilterra. Il viaggio doveva essere rimandato per la malattia di Luigi Napoleone, ma a complicare la già grave situazione fu l’occupazione di Ancona da parte degli austriaci, e la requisizione del palazzo dalle autorità militari austriache. Ortensia, che aveva passaporto inglese e non fu riconosciuta, ottenne il diritto di occupare poche stanze dell’edificio. La camera dove Luigi Napoleone passò la fase finale della malattia e la convalescenza era accanto a quella del generale austriaco comandante del presidio di Ancona. Tutti infatti credettero che il principe fosse già partito per la Grecia, infatti sua madre aveva fatto riservare, prima dell’arrivo degli austriaci ad Ancona, un biglietto su una nave pronta a salpare per Corfù e di fronte a molte persone furono fatte caricare le valigie del principe. Il 3 aprile Luigi Napoleone poteva mettersi in viaggio, all’alba Ortensia lasciò il palazzo con suo figlio, vestito da domestico, seduto a cassetta della vettura. Dopo venti giorni erano a Parigi per poi giungere in Inghilterra.

L’Opéra de Paris

L’Opéra luogo dell’attentato di Orsini, non esiste più. Infatti Napoleone III, a circa centro metri in linea d’aria da rue Le Peletier, nel 1860 incaricò l’architetto francese Charles Garnier di far sorgere la nuova Opèra, che chiunque si rechi oggi a Parigi può ammirare nella omonima piazza.
L’attentato di Orsini indusse però Garnier a migliorare le condizioni della sicurezza per gli ospiti del teatro. Aggiunse infatti un padiglione, tutt’oggi visibile, sul lato est dell’edificio, raggiungibile direttamente con la carrozza attraverso uno scivolo, così da consentire al sovrano, una volta sceso dalla vettura, al coperto, di giungere con sicurezza alla suite accanto al palco reale. I lavori iniziarono nel 1862, ma furono sospesi per la guerra franco-prussiana del 1870 ed i moti della Comune del 1871. Ripresero, ma l’inaugurazione del magni-fico teatro avvenne solo nel1875, due anni dopo la morte di Napoleone III e quattro dalla nascita della terza repubblica. Mai nessun sovrano francese avrebbe usufruito di quel sicuro accesso.

Bibliografia orientativa:
Testi a carattere generale:
G. Candeloro, Storia dell’Italia Moderna, Feltrinelli, Milano, 1964, Voll. III-IV.
G. Galasso, Storia d’Italia, UTET, Torino, 1998, Vol. XIX.
Testi a carattere particolare:
M. Boulanger, L’attentat d’Orsini, Hachette, Paris, 1927.
D. Ciociola, L’attentato di Felice Orsini a Napoleone III, Loffredo Editore, Napoli, 1966.
P. Guèriot, Napoleone III, De Agostini, Novara, 1969, Voll. I-II.
A. Luzio, Felice Orsini, Saggio Biografico, Cogliati, Milano, 1914.
G. Manzini, Avventure e morte di Felice Orsini, Camena, Milano, 1991.
F. Orsini, Memorie politiche, BUR, Milano, 1962.
C. Pagani, Felice Orsini, Eugene di Montijo e Napoleone III, in Nuova Antologia, Anno LIX, n° 1, Gennaio 1925.

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