martedì 30 agosto 2011

Un mare di contrasti

(fonte: Il Tempo), a cura di Roberto Di Ferdinando


L’Asean Regional Forum (ARF) è un istituzione, consultiva, creata nel 1992 dai paesi membri dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell'Asia Sud-Orientale, l’organizzazione politica, economica e culturale di nazioni situate nel Sud-est asiatico). Oggi si compone di 27 stati membri, tra cui la Cina e gli USA, e svolge sostanzialmente una funzione di forum sulle questioni di sicurezza nella regione del sud-est asiatico. Nel luglio scorso si è svolta, a Bali (Indonesia), la sua 18esima riunione, durante la quale non è emerso niente di significativo, sebbene la regione attraversi oggi un periodo di grandi tensioni dovute al controllo di determinati territori contesi e le risorse energetiche che qui sono ingenti. Da segnalare le ostilità tra Thailandia e Cambogia, nel nord-est del Myanmar è in atto una rivolta contro il governo centrale, gruppi terroristici islamici sono presenti in Malaysia e nelle Filippine, la pirateria negli Stretti della Malacca, contrasti tra Giappone e Cina per il controllo delle isole a sud di Okinawa, le tensioni tra le due Coree, il problema di Taiwan con la Cina, gli scontri al confine tra gli eserciti di India e Cina e la preoccupazione cinese che il l’India si leghi agli USA in funzione anti Pechino, mentre l’India teme, invece, che la Cina si avvicini troppo al Pakistan, scontri tra Cina e Vietnam sul controllo di isole strategiche, ecc…. Come se non bastassero tutti questi elementi di conflitto, si aggiunge anche la corsa allo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche presenti nelle acque del Mar Cinese Meridionale, che la Cina considera un Mare Nostrum e che è una strategica via di comunicazione marittima per le merci che dal Pacifico ed Asia vanno verso il Vecchio Continente. Si calcola che in queste acque vi siano potenzialmente 50 miliardi di petrolio da estrarre e ben 20 trilioni di metri cubici di gas naturale. Queste risorse sarebbero concentrate prevalentemente intorno all’arcipelago delle Spratly, da anni al centro di contenziosi sulla loro sovranità tra Cina ed altri paesi. Nella riunione di Bali, il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ha rivendicato il diritto statunitense di effettuare esercitazioni militari in questo mare, una presenza anche come garanzia ai paesi ASEAN che si sentono minacciati dal dinamismo militare cinese (da poche settimana la Cina ha una propria portaerei), fino a quando, però, Washington potrà permettersi, anche economicamente, tale presenza.
RDF

lunedì 29 agosto 2011

Storia - La difesa dell'Europa Occidentale dal Patto di Bruxelles allo spiegamento degli Euromissili

Testo di Francesco Della Lunga

Premessa
La difesa dell’Europa Occidentale è stata certamente una delle vicende fra le più complesse ed articolate che si sono dipanate nel più grande contesto del rapporto Est-Ovest, dalla fase più calda della guerra fredda che vide nascere, dopo l’enunciazione della dottrina Truman del “containment” i primi trattati multilaterali, dal Patto di Bruxelles al Patto Atlantico, fino al fallimento della CED nel 1954, arrivando alle fasi successive passando dalla “coesistenza pacifica competitiva” alla “grande distensione” lungo la quale le principali fasi scandite sono state indubbiamente la nascita dell’UEO e della NATO (1954-55), il tentativo francese di creare una “force de frappe” con il sostegno tedesco ed italiano, i principali accordi fra le superpotenze negli anni dal ’68 al ’74 con le pietre miliari del TNP (1968), SALT I e SALT II (’72 e ’74), la nascita della CSCE nel 1975 con la Dichiarazione finale di Helsinki, lungo i quali la questione diminuì in parte di importanza, fino ad un riesplodere nel periodo di “recrudescenza” della guerra fredda che culminò, all’inizio degli anni ’80, con il dispiegamento degli euromissili.
Un periodo molto complesso ed intriso di avvenimenti dunque. Tuttavia, per tentare di dare un’interpretazione ampia, che oltrepassi le schematiche categorie della guerra fredda, non è possibile analizzare questo periodo senza considerare, allo stesso tempo anche se su due piani separati, i rapporti Est-Ovest sullo sfondo ed i rapporti interni alle potenze europee dall’altra parte, almeno nelle dinamiche strettamente necessarie ad inquadrarne il fenomeno che qui interessa.
Se le dinamiche fra le due superpotenze (così identificate almeno dal 1962) influirono pesantemente sulla costruzione di un sistema di difesa europeo, essendo infatti integrato nel dispositivo di sicurezza più ampio approntato dagli Stati Uniti per bloccare l’espansione sovietica nel mondo e legandolo, lungo molti periodi, ad un comune destino, non c’è dubbio che, almeno in alcune fasi, soprattutto durante la “grande distensione”, collocabile immediatamente dopo la fine della crisi di Cuba, le ormai ex potenze europee poterono tentare di ritagliarsi un ruolo autonomo emancipandosi dalla protezione americana, con il tentativo sicuramente più ardito, quello di De Gaulle, di creare una “force de frappe” autonoma.
E’ possibile dunque affrontare la questione della difesa dell’Europa Occidentale analizzando il “periodo caldo” della guerra fredda (1947-1954) con la risposta americana ed europea alla crescente minaccia sovietica da un lato, e quello più grande, anche se forse meno contrassegnato da eventi eclatanti, se si esclude il tentativo francese, che può essere datato dalla fine della crisi cubana (1962) fino al 1975, Dal 1975 al 1980, periodo in cui riesplodono le tensioni, la difesa dell’Europa Occidentale culminerà con il fatto forse più spettacolare, cioè l’installazione degli euromissili.

Il “periodo caldo” della Guerra Fredda 1947 - 1954La nascita del Patto di Bruxelles che racchiuse le nazioni europee uscite vittoriose dalla guerra, nel 1947, e composto da Gran Bretagna, Francia e Benelux (Belgio, Olanda, Lussemburgo), voleva essere la risposta europea alla minaccia sovietica, sfociata nella “sovietizzazione” dei paesi dell’Est Europa, piombati, come efficacemente descritto da Churchill già nel 1945 a Fulton, Missouri, in una “cortina di ferro”.
Il Patto di Bruxelles seguiva la già enunciata “dottrina Truman” per la quale occorreva “contenere” l’avanzata sovietica in Europa, cristallizzandola nelle zone in cui l’armata rossa si era fermata alla fine della guerra.
E’ dunque possibile affermare che, in questo periodo, la prima timida costruzione di un dispositivo di difesa europea procedeva di pari passo con le esigenze statunitensi, tentando allo stesso tempo di favorire l’affermarsi delle linee portanti, ancora non condivise nella loro interezza. Infatti il Patto, voluto fortemente dalla Gran Bretagna laburista, doveva rappresentare il grimaldello necessario ai democratici statunitensi per indurre il Congresso ad abbattere i teoremi della “dottrina Monroe” ed incamminarsi, con decisione, verso la difesa degli interessi USA laddove venivano minacciati. L’Europa, in quel momento, era indubbiamente al vertice delle preoccupazioni americane che erano orientate verso la soluzione del problema della ricostruzione, avendo cura di seguire le linee tracciate dal “gran design” roosveltiano e bloccare le mosse sovietiche ritenute fortemente minacciose. Si trattava dunque di una strategia a tutto campo: affermazione dei principi economici del liberoscambismo nell’Europa liberata e difesa di quest’ultima dalle minacce sovietiche. Se la risoluzione Vandenbergh del 1947 permetteva il dispiegare degli strumenti della dottrina Truman in Europa culminati con il Piano Marshall, la difesa europea di cui il Patto di Bruxelles segnava la prima importante tappa, era ancora priva di efficacia. Infatti se da un lato gli USA, consci della minaccia sovietica incombente, avevano pienamente compreso la necessità di creare un sistema difensivo che includesse la Germania Ovest e l’Italia, ex potenze dell’asse sconfitte, necessarie però a “contenere” definitivamente e chiudere l’espansione sovietica, non era possibile affrontare ancora con decisione la questione per il comprensibile veto francese che riteneva inaccettabile, a distanza di soli due anni, la rinascita tedesca. Tuttavia l’Europa era troppo debole per immaginare un dispositivo autonomo di difesa ma le condivise preoccupazioni di sicurezza crebbero all’indomani della prima importante “crisi di Berlino” iniziata nel 1948, che rappresentava la risposta di Stalin al Piano Marshall e all’imminente firma del Patto Atlantico.
Se l’Europa non poteva fare da sola dunque, il Patto Atlantico rappresentava il primo forte segnale inviato dagli USA non solo a Stalin, ma anche agli alleati europei. La sua importanza era inoltre accresciuta dal fatto che, in tal modo, Gran Bretagna e Francia ottenevano forti rassicurazioni grazie all’impegno diretto americano; allo stesso tempo si cercava di smorzare le prime incomprensioni fra le due potenze europee ora protese alla ricerca della collaborazione, ora rivolte verso l’affermazione di istanze autonome. Il possesso, da parte USA della bomba atomica, dava nel frattempo un forte vantaggio agli Stati Uniti ed una certa sicurezza agli europei mentre sull’altro campo Stalin aveva già ordinato di colmare il gap.
La risposta di Stalin alla dottrina Truman, culminata con il già citato blocco di Berlino del 1948, risolto tuttavia efficacemente dagli americani con uno spettacolare ponte aereo che ne mise a nudo l’inefficacia, era tuttavia una forte fonte di preoccupazione per il presidente americano che già iniziava a ritenere necessario il riarmo tedesco. Si trattava dunque di trovare una risposta che fosse, al tempo stesso, efficace nei confronti non solo francesi ma anche dei tedeschi occidentali che si trovavano nella scomoda situazione di essere localizzati sul “fronte caldo” della “guerra fredda”.
Per di più, la necessità del riarmo tedesco si fece ancora più forte con lo scoppio della guerra di Corea (1950). Dal canto loro i francesi, consci della gravità della situazione e certi che la questione del riarmo tedesco sarebbe tornata di stringente attualità, decisero di anticipare le mosse statunitensi con la proposta del ministro francese Plevèn che presentò l’omonimo piano di organizzazione di una difesa comune europea. In breve, il piano prevedeva la costituzione di un nucleo armato interforze nell’ambito del quale era prevista la presenza di un contingente di forze tedesche senza che esse potessero svolgere un ruolo preponderante. La proposta francese apparve subito insufficiente sia alla Germania di Adenauer che non accettava il controllo francese sulle proprie forze armate, che dagli anglo-americani. Ma poiché le ripercussioni della guerra di Corea amplificavano i timori europei, soprattutto quelli tedeschi e statunitensi, occorreva dare una risposta efficace ai problemi emersi. La proposta di creazione di una Comunità Europea di Difesa (CED) seppure offrisse maggiori garanzie alla Germania ed essendo ritenuta una risposta efficace dagli Stati Uniti, conteneva in sé un’intrinseca debolezza, dovuta al mai sopito scetticismo francese.
E’ necessario, a questo punto, inquadrare meglio gli sviluppi della questione CED sia dal punto di vista statunitense che da quello europeo e soprattutto francese in quanto si sarebbero riscontrati sia dei successi formali (UEO e NATO) ma anche delle dinamiche che, a partire dalla crisi di Suez, avrebbero portato i francesi alla convinzione che non era possibile fidarsi del tutto dell’alleato USA e che sarebbe stato dunque necessario immaginare una difesa europea più autonoma fino alla costituzione di una “force de frappe”.

Il periodo del disimpegno americano – La Grande Distensione
Se infatti l’attenzione statunitense verso l’Europa passò da un primo inasprimento dei rapporti in seguito alla chiusura francese, efficacemente racchiuso nelle parole di Dulles che presagivano una “agonising reappraisal” o revisione angosciosa nell’atteggiamento americano verso il problema della difesa europea, fino ad un progressivo allentamento della tensione sul teatro europeo collegabili alla morte di Stalin (1953) ed il consolidamento del nuovo leader sovietico Krusciov (1956) che stava spostando su scenari esterni all’Europa il confronto bipolare, sia i francesi che la Gran Bretagna e la Germania iniziarono a percepire un certo distacco rispetto al problema della sicurezza europea che, fino ad allora, aveva contrassegnato i principali passaggi della guerra fredda.
Infatti, i segnali di un disimpegno iniziarono a percepirsi sin dalla fine del conflitto coreano che stava effettivamente chiudendo un periodo di forti contrasti in Europa. In entrambe le superpotenze infatti, il passaggio di consegne da Truman ad Eisenhower da un lato e da Stalin a Krusciov dall’altro, impresse un’accelerazione alle dinamiche bipolari che, dopo una fase contrassegnata da asperrime polemiche e crisi diplomatiche portarono alla fase della “grande distensione”.
Durante questi dieci anni infatti, se da un lato fu possibile osservare un certo assopimento del problema della difesa europea, sentito d’altra parte dagli europei come una sorta di abbandono, dall’altro lato le relazioni Est-Ovest iniziarono a prendere una dimensione globale lasciando sullo sfondo il problema di Berlino.
La bocciatura della CED con il voto negativo dell’Assemblea Nazionale francese, nel 1954, non aveva scalfito in maniera pesante la fiducia degli alleati che sentivano comunque l’esigenza di compiere un salto di qualità su una questione sempre più spinosa. Grazie all’attività del britannico Eden fu possibile, in pochi mesi, arrivare alla nascita dell’UEO (Unione Europea Occidentale) e alla costituzione del primo sistema integrato di difesa, la NATO (North Atlantic Treaty Organization), con l’ingresso, questa volta, di Germania Ovest e Italia. La risposta sovietica alla NATO, che rappresentava il dispositivo militare di un accordo politico, il Patto Atlantico, fu la creazione, immediatamente dopo, nel 1955, del Patto di Varsavia. La nascita della NATO comunque, pareva dimostrare che senza la garanzia statunitense non era possibile mettersi d’accordo. Ancora una volta, un meccanismo di difesa esclusivamente europeo, collegato agli Stati Uniti, non era stato possibile, bloccato com’era dai veti francesi mentre, paradossalmente, se ne sentiva sempre di più la necessità, soprattutto in ragione della percezione di quell’allontanamento che sarebbe stato percepito nella sua interezza, di lì a poco.
La nascita della NATO e della UEO da un lato e del Patto di Varsavia dall’altro, se bloccavano in maniera duratura le dinamiche fra i due blocchi sul continente, dell’altro lato acceleravano quel processo di ripensamento, già da lungo tempo iniziato, che avrebbe portato le ultime potenze europee, Francia e Gran Bretagna, a sentirsi definitivamente estromesse dai giochi mondiali ed a perdere la convinzione di essere ancora “grandi potenze”. L’amaro risveglio dalle illusioni di grandezza imperiale avvenne all’indomani della crisi di Suez (1956), ultima crisi di stampo eurocentrico, quando sia i francesi che gli inglesi, recuperato per un breve frangente l’antica alleanza, vennero lasciati soli da USA ed inaspettatamente anche dall’URSS quando, condannandone l’azione in sede ONU, costrinsero gli anglo-francesi a perdere il controllo del canale.
La crisi di Suez fece maturare, alle due potenze sconfitte nel loro prestigio, due considerazioni: da una parte il senso di ridimensionamento, dall’altro la percezione che gli USA si stesero staccando dal teatro europeo per affrontare, concentrandosi sugli scenari asiatici ed africani, le dinamiche impresse dalla coesistenza pacifica competitiva.
La crisi di Berlino del 1958-61 e la successiva crisi di Cuba nel 1962 contribuirono a rafforzare questa convinzione e furono certamente il preludio alla spaccatura francese in seno alla NATO ed il successivo tentativo di De Gaulle di creare la “force de frappe”.
Sia la crisi di Berlino che, in misura maggiore, quella di Cuba, diedero infatti agli europei la percezione del cambio di guida statunitense e della necessità di attrezzarsi anche con una forza maggiormente indipendente della garanzia USA, espressa attraverso la NATO. In particolare, De Gaulle in testa ma anche Adenauer, ebbero la sensazione che gli USA si affidassero ad una dottrina diversa nella difesa dei loro interessi a seconda del continente in cui questi fossero stati minacciati. Si parlò infatti di “massive retaliation” quando la minaccia era alle porte, come la crisi di Cuba stava a dimostrare, mentre i teatri più lontani, come quello europeo, potevano essere difesi con una “risposta flessibile” mettendo gli alleati in una scomoda posizione di inferiorità nei confronti della forza ipotizzata del Patto di Varsavia.
L’atteggiamento USA durante la crisi di Cuba generò infatti due ordini di considerazioni: innanzi tutto la semplice informazione in luogo della consultazione accrebbe per gli europei il senso di distacco; secondariamente il ritiro dei missili Jupiter e Thor dall’Italia e dalla Turchia in cambio della rinuncia sovietica di installare i missili a Cuba venne interpretata come la conferma dei peggiori timori e cioè di non essere in grado di rispondere ad un attacco sovietico sul territorio europeo affidando agli USA la sola risposta flessibile che, comunque, sarebbe giunta in ritardo.
L’idea che una parte di territorio europeo fosse sguarnita dell’ombrello missilistico statunitense fece tornare sotto i riflettori il mai sopito dibattito sulla difesa europea, coinvolgendo a pieno titolo il ruolo della NATO nel tentativo di trovare una soluzione alla minaccia sovietica che, ancora una volta si era manifestata a Berlino e che era culminata in un nuovo atto di sfida con la costruzione del muro che separava in due la città, facendo sentire le ripercussioni negative non solo in Germania ma anche nel resto d’Europa con la sensazione che i due mondi fossero in una situazione di incomunicabilità.
Nonostante che quest’ultima affermazione fosse priva di fondamento dal momento che né Krusciov e tanto meno Kennedy avrebbero spinto le tensioni fino all’”inevitabilità del conflitto”, le preoccupazioni di Adenauer e di De Gaulle spinsero i due alleati riottosi a superare le vecchie divisioni con un significativo riavvicinamento, isolando la Gran Bretagna che rimaneva saldamente ancorata al principio della “special relationship” e avvicinandosi, con la dovuta cautela, all’URSS. L’artefice di questo cambio di direzione fu indubbiamente De Gaulle che comprese la necessità di riannodare i rapporti non solo con la Germania Ovest ma anche con l’URSS con il duplice tentativo di creare da un lato un dispositivo di difesa autonomo che vedesse il contributo tedesco ed italiano sfruttando le sinergie che la nascita dell’Euratom poteva fornire in chiave nucleare e dall’altro di imprimere all’integrazione europea una spinta decisiva, lasciando fuori dai giochi la Gran Bretagna vista quest’ultima come il “cavallo di Troia” in mano agli USA per bloccare la rinascita europea, secondo l’idea del presidente francese.
La rinata visibilità francese, oltre a generare una serie di azioni clamorose come la fuoriuscita dal dispositivo di difesa integrato della NATO, anche in risposta ad antichi dissapori maturati verso gli USA riguardo alla gestione francese della decolonizzazione (Algeria) ed il cui comando, come segno di attenzione americana verso il difficile alleato era stato spostato a Parigi non andò comunque al di là di una certa spettacolarità dal momento che De Gaulle non sarebbe mai uscito dal Patto Atlantico. Tuttavia, il nuovo protagonismo francese, oltre ad alimentare delle timide speranze sovietiche nel vedere in difficoltà il nemico statunitense nell’ambito del proprio campo, raffreddarono anche l’iniziale slancio tedesco e chiusero definitivamente la porta in faccia alla Gran Bretagna, nel suo tentativo di entrare nella Comunità Europea.
Alcune correnti storiografiche hanno attribuito possibili le iniziative di De Gaulle in virtù del mutato contesto internazionale. E’ probabilmente vero che il teatro europeo, nell’ambito del confronto Est-Ovest, si era in parte stabilizzato, rendendo possibile la ripresa di una politica estera più indipendente rispetto al passato da parte degli stati europei occidentali, come mostrato dalle mutazioni in atto all’interno di alcuni di essi, come l’Italia, che avevano portato ad esempio all’apertura a sinistra mentre in Germania si ponevano le basi per quello che di lì a poco sarebbe culminato nell’Ostpolitik di Brandt ed è altrettanto vero che il tentativo gollista di rafforzare l’Europa occidentale non solo con la “force de frappe” ma anche rilanciandone l’integrazione, seppur non percepito tale dagli alleati, avrebbe poi costituito un passaggio fondamentale verso la ripresa della costruzione europea.
Nel frattempo, alla fine degli anni ’60 emergevano altri fattori che contribuivano a smorzare la tensione in Europa e a far diminuire nuovamente l’intensità del problema della difesa e dall’altro a generare i primi tentativi di dialogo fra l’Europa Bipolare, tentativi che culminarono con la Conferenza di Helsinki del 1975 e la creazione della CSCE.
Mentre gli europei, seguendo De Gaulle, inaugurarono i primi tentativi di apertura ad est che sarebbero sfociati nella Ostpolitik di Brandt alla fine degli anni ’60, le due superpotenze, consapevoli ormai dell’equilibrio raggiunto, soprattutto nel campo nucleare, inauguravano i primi trattati riguardanti il disarmo che rappresentavano forse la chiusura della grande competizione iniziata negli anni ’50 e sancivano, di fatto, la grande distensione. I più importanti passaggi di questa intensa attività diplomatica furono scanditi dal Trattato di non proliferazione siglato nel 1968 e i due trattati sulla limitazione delle armi strategiche, SALT I e SALT II, rispettivamente nel 1972 e 1974. In effetti, a cavallo degli anni ’70 la distensione aveva permesso non solo la perdita di importanza della difesa europea ma anche un primo tentativo di dialogo fra l’Europa dei due blocchi con la creazione di un importante forum di discussione sui problemi della sicurezza europea, la CSCE, nel 1975.
Questo evento era anche il risultato della già citata Ostpolitik con la quale il cancelliere tedesco Brandt apriva il dialogo con la Germania di Ulbricht che, di lì a poco, sarebbe stato sostituito con il più conciliante Honecker, a dimostrazione del mutato clima. La CSCE rappresentò, in prospettiva, forse il più importante evento figlio della distensione fra i due mondi anche se, a causa del suo limitato e simbolico effetto scaturito dai risultati del summit non ebbe forse il necessario riconoscimento da parte dei suoi stessi protagonisti.
Alcuni storici, a conferma dell’importanza della CSCE, ne attribuirono due importanti significati: da un lato l’importanza del tema dei diritti umani, molto caro al presidente USA Jimmy Carter, sarebbe stato un’importante grimaldello, usato intelligentemente da quest’ultimo, nell’amplificare le tensioni all’interno del mondo comunista con il successivo crollo; dall’altro sembrava un importante passo comune in vista della soluzione dell’ancora sentito problema della sicurezza europea.

La rinascita delle tensioni bipolari e l’installazione degli Euromissili
Fu proprio a partire da allora che, il problema della sicurezza visse una nuova stagione di attenzione, con la nascita di improvvise tensioni che portarono all’installazione degli euromissili in Europa.
Riguardo a quest’ultimo punto, non è ancora esattamente compresa la ragione della rinascita delle tensioni anche nel più ampio contesto del confronto Est-Ovest dopo oltre dieci anni di relativa tranquillità. Fra i fatti oggettivi spicca sicuramente la decisione sovietica di installare i nuovi missili SS20 e SS21 puntati verso l’Europa per bilanciare gli effetti dei trattati SALT che avrebbero avvantaggiato gli USA. La mossa sovietica, interpretata da alcuni storici in chiave difensiva, non venne percepita in tutta la sua reale portata soprattutto dalla Germania Ovest rimettendo in moto timori e tensioni con la decisione finale di Carter di dotare gli europei dei missili a medio raggio, i Pershing II ed i Cruise. L’installazione dei missili nei paesi dell’Europa Occidentale, anche se non eliminò del tutto il problema della sicurezza, contribuì temporaneamente a tranquillizzare gli alleati, anche se nuove tensioni erano all’orizzonte; d’altra parte è anche condivisa l’opinione per la quale un attacco sovietico non sarebbe stato possibile, in virtù del principio della “deterrenza”.

Conclusioni
Alla fine di questo lungo percorso è possibile affermare che il dibattito sulla difesa dell’Europa occidentale nel periodo del confronto bipolare, non può essere compreso inquadrandolo in un’ottica esclusivamente europea, essendo altresì necessario spiegarne le interazioni con le esigenze americane ed il confronto bipolare.
Il problema della difesa europea contrassegnò un periodo scandito da aspre crisi all’apparenza difficilmente risolvibili come le crisi di Berlino e di Cuba durante le quali conobbe i momenti più intensi che portarono alla creazione di un sistema di difesa imperniato sulla presenza USA in Europa con la NATO che proseguiva nella strada tracciata dal Patto di Bruxelles, come primo esperimento europeo, al Patto Atlantico con l’irrinunciabile presenza americana.
Il periodo contrassegnato dagli anni ’60, seguendo parallelamente le dinamiche fra le due superpotenze, vide da un lato diminuire l’intensità, almeno dal punto di vista delle esigenze americane mentre dall’altro rimase vivo e presente nella mente dei leader europei, primo fra tutti De Gaulle, che percepirono l’importanza di una difesa comune, anche svincolata dalla protezione USA, in risposta al suo presunto disimpegno.
Se il tentativo francese con venne compreso appieno in Europa reputandolo un metodo efficace per riaffermare la prevalenza francese sul continente, non è forse possibile considerarlo solo in termini riduttivi dal momento che l’esigenza di una difesa europea autonoma rientrava in una logica di “normalità” nel momento in cui la sfida bipolare sarebbe cessata. Ma forse era ancora troppo presto per ipotizzarne la fine, anche se la grande distensione aveva fatto maturare qualche timida speranza.
L’installazione degli euromissili infine, confermò il forte senso di insicurezza europeo che si era affermato in più occasioni; tuttavia rappresentava, almeno in prospettiva, un tentativo per gettare le basi di un sistema di difesa autonomo europeo senza immaginare che nel volgere di pochi anni anche gli euromissili sarebbero stati ricordati come un momento indubbiamente difficile per l’Europa.

giovedì 25 agosto 2011

Stato della Palestina

Salve, Le Amiche e gli Amici dell'Associazione Le Mafalde di Prato mi hanno inoltrato una mail con il testo che segue qui sotto. E' l'appello pubblico per la dichiarazione d'indipendenza della Palestina che sta girando in questi giorni sul Web. Non condivido alcuni passaggi del video, ma credo che se decidessi di non pubblicare su RI questa notizia e video, alcuni nostri lettori, che potranno convenire, invece, sul contenuto di questo video, subirebbero una censura. Sono libero di pubblicarlo, anche se non lo apprezzo in molte sue parti.
RDF


Cari amici,

Fra 24 ore il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si riunirà di nuovo per discutere la dichiarazione d'indipendenza della Palestina, che si candida a diventare il 194° stato nel mondo.

Già 700.000 di noi hanno aderito a questa campagna. Ma abbiamo bisogno di più forze per convincere i paesi chiave a votare a favore.

Avaaz ha prodotto un video breve ed efficace, che racconta la vera storia e spiega perché questa è la migliore opportunità che abbiamo per ottenere la pace.

Clicca per guardarlo e invialo a tutti quelli che conosci raggiungiamo il traguardo di 1 milione di firmatari adesso:

http://www.avaaz.org/it/middle_east_peace_now/?cl=1239936079&v=10059

La nostra campagna per lo stato palestinese sta montando, con quasi 700.000 persone tra noi che hanno risposto alla chiamata nel giro di pochi giorni! La campagna è stata sulle prime pagine dei principali giornali, citata all’interno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e diffusa via Twitter dal Presidente palestinese in persona. Il Consiglio di Sicurezza discuterà nuovamente la questione questa settimana, ma alcuni governi chiave non hanno ancora preso posizione.

Alti diplomatici hanno dichiarato ad Avaaz che l’opinione pubblica gioca un ruolo chiave per incanalare il sostegno all’indipendenza. Molte persone però hanno la sensazione di non comprendere a fondo la situazione tanto da attivarsi. Avaaz ha prodotto un nuovo breve video, che racconta la vera storia del conflitto. Se saremo in tanti a vedere il video e a firmare la petizione, potremo creare un’ondata di pressione enorme e influenzare così il voto.

Troppo spesso i media non ci dicono veramente quello che abbiamo bisogno di sapere per agire. Quasi 10 milioni di persone stanno ricevendo questa e-mail e potranno guardare questo video. Se lo inoltriamo ora a un numero notevole di persone, DIVENTIAMO noi stessi i media, e possiamo determinare l’opinione pubblica. Clicca in basso per vedere il video, firma la petizione se non lo hai già fatto, e inoltra questa e-mail a ogni tuo contatto, specialmente nei paesi europei ancora incerti – raggiungiamo l’obiettivo di 1 milione di firmatari prima che si tenga l’incontro dell'ONU questa settimana:

http://www.avaaz.org/it/middle_east_peace_now/?vl

Lo scorso mese i Palestinesi hanno presentato la loro dichiarazione d'indipendenza al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Più di 120 paesi li sostengono, ma gli Stati Uniti respingono la proposta e hanno mandato un chiaro messaggio ai loro alleati europei: il sostegno alla legittima dichiarazione palestinese si ripercuoterà duramente nelle relazioni bilaterali. Ora tocca a noi far capire ai principali leader europei che l’opinione pubblica è in favore di questa spinta diplomatica nonviolenta e che dovremmo essere noi la base per le scelte politiche, non importa se questo farà “arrabbiare gli americani”.

Mentre la maggioranza dei palestinesi e degli israeliani vuole la soluzione del conflitto basata sui due stati, il governo estremista israeliano continua ad appoggiare la costruzione degli insediamenti nelle aree contese. E nonostante i ripetuti sforzi, i decenni spesi in negoziati di pace patrocinati dagli Stati Uniti non sono riusciti a frenare le violenze da entrambe le parti e a far raggiungere un accordo.

Proprio adesso questa dichiarazione d'indipendenza potrebbe rivelarsi la migliore opportunità che abbiamo per superare lo stallo, evitare un’altra spirale di violenza e spianare il campo da gioco tra le due parti per favorire i negoziati. La nostra campagna sta esplodendo in tutto il mondo – assicuriamoci che arrivi alle orecchie dei principali leader europei il cui appoggio è di cruciale importanza. Clicca in basso per vedere il video, firma la petizione se non lo hai già fatto e inoltra questa e-mail a ogni tuo contatto – raggiungiamo il traguardo di 1 milione di firmatari:

http://www.avaaz.org/it/middle_east_peace_now/?vl

C’è molta disinformazione sul conflitto israelo-palestinese e molti di noi non se la sentono di partecipare in prima persona. Ma questo breve video spiega la situazione in modo chiaro e può cambiare le cose. In quanto network globale di quasi 10 milioni di persone sparse in ogni paese del mondo, noi abbiamo l’opportunità d'influenzare un voto che potrebbe ribaltare una situazione di decenni di violenza. Tutto quello che dobbiamo fare è condividere questo filmato e incoraggiare le persone che conosciamo a unirsi a questa campagna fondamentale per la pace.

Con speranza,

Alice, Pascal, Emma, Ricken, David, Rewan e il team di Avaaz.

PIU' INFORMAZIONI:

Battaglia (diplomatica) per la Palestina (La Repubblica)
http://feluche.blogautore.repubblica.it/2011/08/14/battaglia-diplomatica-per-la-palestina/

I palestinesi presenteranno la dichiarazione d'indipendenza all'Assemblea generale dell'ONU, in inglese (Guardian)
http://www.guardian.co.uk/world/2011/aug/14/palestinian-statehood-un-general-assembly

Il ministro israeliano: Tagliate tutti i rapporti con i palestinesi, in inglese (Associated Press)
http://www.google.com/hostednews/ap/article/ALeqM5ibKJgqvlCr_xCGw5Xb0kXhOiagjQ?docId=0b01e969e8504d42823abd51c2abf8fc

L'ONU chiede a Israele di non costruire nuovi insediamenti a Gerusalemme est, in inglese (Ha'aretz)
http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/un-calls-on-israel-not-to-build-new-settlements-in-east-jerusalem-1.378218


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mercoledì 24 agosto 2011

I consiglieri militari fondamentali per la vittoria dei ribelli in Libia

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Come avevo già scritto su RI, con il post del 4 aprile 2011, non appena le operazioni NATO in Libia si sono intensificate nel marzo scorso, sul territorio libico sono sbarcati i “consiglieri militari”. I governi aderenti all’Alleanza dei Volenterosi (i paesi che hanno messo a disposizione dell’operazione NATO in Libia, uomini e mezzi), non volendo impiegare in Libia propri soldati, hanno inviato membri dei servizi segreti e dei reparti speciali che in gran segreto e mimetizzandosi tra i ribelli (vestendosi ed armandosi come loro) hanno operato risultando determinanti, più dei missili, al successo della rivolta anti Gheddafi. Nonostante i governi coinvolti nell’operazione abbiano negato la presenza dei consiglieri in territorio libico, questi dapprima hanno svolto una funzione di addestramento dei ribelli poi hanno condotto operazioni di intelligence e sabotaggio contro il regime libico. I consiglieri, dotati di radio criptate, telefoni satellitari e potenti binocoli hanno fornito da terra le indicazioni per le operazioni aeree NATO, grazie agli agenti segreti USA (secondo la stampa statunitense, il Pentagono in queste settimane avrebbe condiviso con gli alleati ed i ribelli informazioni sulla Libia rimaste segrete a lungo) i ribelli hanno ottenuto informazioni su quali e quanto i generali fossero fedeli a Gheddafi e sui movimenti delle truppe lealiste, in modo da evitare degli scontri diretti in campo aperto. I consiglieri del Qatar hanno “lavorato” perché alcune vecchie strade di comunicazione diventassero piste d’atterraggio per rifornire di armi i ribelli, non solo, il Qatar ha messo a disposizione mezzi militare per portare nell’Emirato centinaia di ribelli, addestrarli rapidamente e riportarli al fronte. Molti consiglieri hanno affiancato i membri del Comitato del governo provvisorio di Bengasi, aiutandoli e consigliandoli in alcune scelte strategiche. Ed ancora, la rapidità con cui i ribelli sono riusciti ad entrare nel bunker di Gheddafi si deve al fatto che sarebbero stati guidati dalle informazioni ed indicazioni fornite dagli 007 occidentali, che da anni avevano le piantine di quei tunnel. Ovviamente tutto questo deve rimanere un segreto.
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Ancora domande

A cura di Roberto Di Ferdinando

Sappiamo ormai che la Politica (sia quella con la “pi” maiuscola che con quella minuscola) segue delle regole spesso non scritte, non dette, di opportunità, di alti (spessissimo di bassi) interessi particolari, che quindi non dovrei stupirmi se i politici si lasciano andare a dichiarazione ed ad scelte/fatti che in altri ambiti della vita quotidiana sarebbero biasimati. Ma non riesco a non stupirmi e non avendo la capacità e le conoscenze per dare delle risposte, approfitto della tribuna di Recinto Internazionale per fare delle domande (mi vengono meglio). Mi riferisco all’attuale situazione in Libia e quindi P(p)olitica internazionale.
Oggi, leggendo un articolo del Corriere della Sera sono riportate le seguenti parole: parla Sarzoky: “Le operazioni militari della Francia continuano finché Gheddafi ed il suo clan non avranno deposto le armi. […] Abbiamo (il premier francese parla anche per Obama, sentito precedentemente al telefono) espresso la volontà di unire la comunità internazionale dietro il popolo libico per aiutarlo nella transizione politica in uno spirito di riconciliazione.” Queste parole sono state pronunciate dopo quelle, sempre di Francia ed anche, questa volta, della Gran Bretagna, in cui si auspicava che Gheddafi lasciasse il paese quanto prima (l’auspicio non dichiarato era che fosse ucciso). Ed ecco la mia domanda: ma la risoluzione dell’ONU, che ha autorizzato il bombardamento NATO in Libia, non era stata votata e conteneva il mandato perche i “Volenterosi” intervenissero per difendere la popolazione civile dalla reazione violenta di Gheddafi per sedare la ribellione? Tutto il resto (stanare/uccidere Gheddafi ed appoggiare i ribelli fino alla vittoria), dove era scritto? Contentissimo che la Libia sia oggi libera dal dittatore-terrorista Gheddafi, ma la mia domanda (per me) è legittima.
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sabato 20 agosto 2011

Gli scandinavi che furono dalla parte di Hitler

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

La strage di Oslo del luglio scorso fece subito parlare ai non norvegesi di un rischio estrema destra in Scandinavia. Ma il folle cecchino, come si è poi dimostrato dalle indagini, non aveva alcun legame con i movimenti di estrema destra e fino ad oggi questi movimenti non si sono macchiati di alcuna violenza. Altra cosa invece constatare, stranamente, che proprio nei paesi scandinavi dove è diffusa una democrazia piena e progressista, questi movimenti siano così presenti ed in un numero molto alto. Forse una spiegazione a questo fenomeno è suggerita da un articolo del Corriere della Sera, che già il 24 luglio, all’indomani della strage, ripercorreva la storia dei paesi del Nord Europa evidenziando come in questi territori il concetto della “supremazia bianca” e delle ideologie di estrema destra abbiano sempre trovato dei sostenitori. Non a caso molte SS, la guardia pretoriana di Hitler, provenivano dalla Scandinavia o delle regioni Baltiche e combatterono contraddistinguendosi, come legionari volontari sul fronte orientale nel Secondo Conflitto Mondiale. Assieme ad Hitler, nel bunker di Berlino, tra gli ultimi resistenti del Terzo Reich, nell’aprile del 1945, vi sono numerosi volontari norvegesi, svedesi e danesi (divisioni Nordland e Wiking) , i fiamminghi della Langemarck, gli olandesi della Nederland ed i francesi della Charlemagne. Tutti loro mossi dal desiderio di partecipare alla crociata nazista contro il bolscevismo ed il sionismo.
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giovedì 18 agosto 2011

La Turchia in Somalia

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Oggi il premier turco Recep Tayyip Erdogan, sua moglie ed una delle sue figlie, il ministro degli esteri turco, Ahmet Davutoglu, e la sua famiglia sono sbarcati in Somalia, a Mogadiscio. Una delegazione, quella turca, autorevole e completa (comprese le famiglie) a dimostrazione che la Turchia sta facendo sul serio nel Corno d’Africa. Infatti, mentre in Europa si discute sulle difficoltà economiche dei paesi membri dell’Unione Europea, la Turchia, il cui PIL cresce a percentuali più alte di quelli dei singoli paesi UE e nel 2011 ha superato anche quello cinese, è ancora in attesa di essere accettata nell’UE (non soddisferebbe ancora alcuni parametri democratici), ma Ankara non si perde d’animo, anzi guarda altrove, verso l’Africa. E mentre il Vecchio Continente si perde dietro a speculazioni economiche e classifiche per chi è il più diligente padre di famiglia (che sa far tornare i conti), ecco che la Turchia ha preso a cuore la situazione drammatica della Somalia, adesso falcidiata anche da carestie, siccità e colera. Il governo di Erdogan, durante la riunione di emergenza dei 57 ministri degli esteri dell’Orgnanizzazione islamica, ha garantito lo stanziamento di 80 miliardi di euro per la crisi somala, ed oggi, come annunciato, si è recato con le sue più alte cariche, nonostante tutti i pericoli del caso, in visita ai campi profughi dove sono accampati circa 500.000 persone che chiedono aiuto, dimenticati dall’Europa dei conti pubblici. Il musulmano osservante Erdogan in aiuto della Somalia musulmana, ma anche una visita che ha il fine di limitare la penetrazione nel continente africano della Cina e dell’India e di far vedere agli europei, se non saranno ancora distratti dalle varie finanziare, che la Turchia è dinamica, sana e pronta per l’UE (ma tra qualche mese esisterà sempre l’UE o chiederemo noi di aderire alla Turchia?).
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mercoledì 17 agosto 2011

Le parole che escludono

A cura di Roberto Di Ferdinando

Giuseppe Faso nel 2008 ha pubblicato il libro dal titolo “Lessico del razzismo democratico – Le parole che escludono”, edito da DeriveApprodi. Nel suo testo, Faso commenta articoli di giornali, servizi giornalistici, testi d legge, interventi di rappresentanti dello Stato, della Giustizia o di politici, evidenziando come oggigiorno molte parole o modalità linguistiche siano entrate nel linguaggio comune con un significato apparentemente neutro o perfino (dell’odiato) politicamente corretto ed invece abbiano un carico forte di discriminazione e di esclusione. Riporto di seguito alcuni esempi. Quando i telegiornali o la carta stampata riportano la notizia di reati commessi, è sempre riportata anche la nazionalità dell’autore del crimine, se questo non è italiano, invece la nazionalità è omessa quando la vittima dei reati non è un italiano, oppure se l’azione criminosa è commessa da un italiano ai danni di un suo connazionale. Ai fini della comunicazione della notizia del crimine, la specificazione della nazionalità del reo non aggiunge niente di più, se non il voler caricare il fatto di un gratuito e celato (non tanto celato) razzismo (loro contro noi).
Ancora, spesso gli organi di informazione definiscono i migranti che approdano sulle coste italiane con i barconi con il termine “disperati”. Questi migranti sono persone, che venendo da situazioni e condizioni di estrema povertà, e, forse, non possedendo più alcun bene materiale, hanno comunque la forza ed il prezioso bene di essere persone, di avere una propria ed unica ricchezza, in quanto individuo. Chi siamo noi per definire un’altra persona disperata?
La parola etnico è oggi di uso comune, dal libro di Faso: “Etnici sono diventati nei discorsi di senso comune i comportamenti diversi dai “nostri” (ma soprattutto i presunti tali), “etnie” (quando non “comunità”) sono definite le appartenenze nazionali […]Ma la tendenza a usare “etnico” è forte, e deriva dall’improponibilità del termine “razza” interdetto dopo Auschwitz. […] Screditato il termine (razza), per le nuove forme di razzismo ne era necessario un altro che permettesse la naturalizzazione delle identità storiche, sociali, culturali […] grazie all’uso disinvolto dei termini “etnia” e “cultura” il razzismo costruisce –universi più o meno separati, chiusi e incomunicabili- immediatamente identificati con gli individui che ne sarebbero portatori”. A completamento, ricordo che il termine razze fu inizialmente usato nell’Ottocento, per fini antropologici e sociali, per definire (classificare) culture diverse. Nel momento però in cui si determina una classifica si creano, all’interno di queste classifiche delle connotazioni (posizioni) di superiorità ed inferiorità.
Le leggi italiane 943/86 e 39/90 hanno introdotto il termine di extracomunitario, che è diventato d’uso da parte di tutti. Ovviamente il termine extra (fuori), ha un suo significato di esclusione, infatti se si definisce un fuori, ci deve essere un dentro più chiuso e connotato per cui più difficile per entrarvi a far parte. Il legislatore italiano, accortosi dell’effettiva forza escludente della parola ha posto rimedio con la legge 40/98 sull’immigrazione: “nelle prime righe della legge – scrive Faso – si avverte infatti che i cittadini appartenenti a Stati non membri della comunità europea verranno definiti Stranieri”. Sono passati 13 anni dall’entrata in vigore di quella legge, oggi le pubblicazioni ufficiali e gli organi di informazioni continuano ad usare esclusivamente il termine extracomunitario.
Un altro termine usato con una valenza discriminante ed ad escludere è “integrazione”. Scrive Faso in riferimento ad integrazione: “non se ne rendono conto i più, ma intendono “assimilazione. Come si dice “cultura” o “etnia” e s’intende “razza”, si dice “integrazione” e si intende “assimilazione”.[…] Non si parla mai di una società che si ricompone a un livello più complesso i suoi settori, e perciò si integra, ma l’immigrato è sempre l’oggetto di una integrazione in un ambito preesistente, di cui non si immagina una modificazione, un processo, quello sì, di inclusione”.
RDF

venerdì 12 agosto 2011

Storia - Un asburgo sul trono del Messico

Testo e foto di Roberto Di Ferdinando

Nel 1867 in una cittadina messicana le forze repubblicane giustiziavano l’ultimo Imperatore del Messico, Massimiliano I, il cui regno, negli anni precedenti, era stato caratterizzato da importanti eventi storici e singo-lari curiosità, tali da meritarsi l’attenzione dell'allora comunità internazionale.
Massimiliano infatti non era messicano, ma un particolare austriaco: era l’Arciduca d’Asburgo, cioè il fratello di Francesco Giuseppe, l'Imperatore d’Austria-Ungheria. Era salito al trono messicano per volere della Fran-cia, che, invaso il Messico per interessi economici e strategici, volle porvi a capo un regnante amico.
Questo tentativo europeo di espandere la propria influenza oltreoceano, catapultò nella questione messica-na anche gli Stati Uniti, che, visti minacciati i propri interessi, adottarono una politica più decisa nei confronti con il vecchio continente.
Il Messico nell'Ottocento
Il Messico aveva ottenuto l’indipendenza dalla Spagna nel 1820, e subito era scoppiato il confronto politico tra conservatori e liberali per dare al paese un determinato assetto istituzionale. I conservatori (proprietari terrieri, preti, ufficiali dell’esercito), preoccupati che il Messico cadesse nella spirale della rivoluzione, punta-vano alla creazione di un potere centralizzato ed autoritario in mano ad un personaggio autorevole. I liberali (avvocati, commercianti e con ampio consenso tra gli indios), invece miravano a smantellare il sistema so-ciale introdotto dagli spagnoli, fatto di disparità e discriminazioni. Nei successivi trent'anni questo confronto vide l'alternarsi al potere, tramite colpi di stato, di governi conservatori e liberali con la nomina di 73 presi-denti della repubblica. Il paese era caduto nel caos politico ed istituzionale, quando nel 1855 i liberali con-quistarono il potere nominando Presidente il generale liberale Ignacio Comonfort. A far parte del governo fu chiamato anche Benito Juarez, un giovane indios, avvocato, che sarebbe divenuto ben presto un eroe na-zionale. Comonfort però avviò una serie di riforme che limitarono i poteri e privilegi della Chiesa: fu ridotta la presenza ed influenza della Chiesa nella vita sociale messicana e furono nazionalizzate molte proprietà reli-giose. La Chiesa messicana non le accettò e nel dicembre del 1857 appoggiò il golpe guidato da Félix Zulo-aga. Comonfort si dimise mentre i ministri contrari ai militari, tra cui il vicepresidente Juarez, furono arrestati. Dopo alcune settimane Juarez fu liberato e come vicepresidente rivendicò la guida del paese, ma Zuloaga non lo riconobbe. Juarez minacciato si ritirò a Veracruz, roccaforte liberale, proclamandosi Presidente del Messico e formando un proprio governo. Iniziava la guerra civile messicana.
All’epoca di questa guerra civile molti erano i messicani fuoriusciti che vivevano in Europa, e qui molti di essi per interessi spesso anche contrapposti, si mossero per pubblicizzare la drammatica situazione del Messico nella speranza che i governi europei potessero trovare una soluzione rapida. Tra questi messicani, personaggio di spicco fu Don José M. Gutierrez de Estrada, prima liberale, diplomatico e Ministro degli Esteri durante la dittatura di Santa Anna, poi monarchico, che da oltre venti anni viveva in esilio a Roma dove aveva sviluppato l’idea che il modello monarchico costituzionale britannico o francese fosse l’ideale per portare il suo il suo paese fuori dal caos istituzionale. Egli si recò spesso in udienza presso i governi europei (Londra, Parigi, Madrid e Vienna) per trovare un monarca, ma in particolare un sostegno politico e militare per il Messico, ma ricevette solo solidarietà. Dietro a questi rifiuti vi era il timore verso gli Stati Uniti. Infatti dopo la diffusione della dottrina Monroe, (l’America agli americani!"del 1823), questi non avrebbero gradito la presenza europea nel continente americano. Certamente gli USA non preoccupavano come potenza militare, ma sfidarli e combatterli oltreoceano non era strategicamente conveniente per nessuno.
Nel momento in cui sembrava impossibile trovare sostegno in Europa, i fuoriusciti messicani trovarono nella Francia il paese disposto ad aiutarli.
Nel dicembre 1851 Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone Bonaparte, con un referendum popolare era eletto Napoleone III Imperatore di Francia. Consolidato quindi il proprio potere, Napoleone III poté concentrarsi nel dare alla Francia un futuro prestigioso fatto anche di conquiste.
Napoleone III aveva più volte manifestato la propria preoccupazione che l’Europa fosse schiacciata da una parte dalla Prussia e dall’altra, inverosimile, dagli Stati Uniti. L’Imperatore francese nutriva diffidenza verso gli USA in quanto una repubblica che aveva ripudiato la monarchia inglese; inoltre le dottrine repubblicane e democratiche americane avevano trovato sostenitori anche in Francia.
Comunque Washington riguardo il Messico esercitava da anni un non disinteressato protettorato. Nel 1836 infatti il Messico aveva perso il Texas, che dopo nove anni d’indipendenza era entrato a far parte degli Stati Uniti. Nello stesso anno il presidente statunitense, Polk, sfruttò un incidente di frontiera per dichiarare guerra al Messico, e costringere il Messico a firmare una pace dura che previde la cessione agli USA della Califor-nia e di alcuni territori di confine. Il Messico perse allora metà del suo territorio. Tutto ciò aveva contribuito ad aumentare l’ostilità dei fuoriusciti conservatori messicani verso le amministrazioni americane, oltre al fatto che Washington sosteneva i liberali messicani.
Napoleone III però non era ancora convinto di impegnarsi nell'avventura messicana, sebbene vi riconosces-se vantaggi economici e strategici.
Per sciogliere le riserve dell'Imperatore, Guiterrez ricorse ad ex dittatori messicani che in esilio potevano vantare influenti conoscenze presso le cancellerie europee, e di José M. Hidalgo, un ex diplomatico messi-cano con contatti a Londra e Madrid, ma intimo amico della contessa di Montijo, madre della cattolicissima Eugenia, la moglie di Napoleone III. Non solo, tramite sua suocera, marchesa francese poteva vantare la conoscenza dell’Aciduca d’Austria Massimiliano e di sua moglie Carlotta.
Nel settembre del 1857 Hidalgo incontrò l’Imperatrice Eugenia a Bayonne, presso Biarritz, in Francia. In quel incontro le parlò del Messico, e di come i liberali trattassero il clero. Eugenia, interessata ed impressionata della vicenda, invitò Hidalgo per un secondo incontrò, questa volta a Parigi, alla presenza di Napoleone III. Durante questo incontro fu ribadita la drammatica situazione messicana, ma l’Imperatore ritenne i tempi ancora immaturi per favorire una monarchia messicana. Gli USA continuavano a preoccupare.
Internazionalizzazione del conflitto
In Messico i conservatori vollero chiudere la partita contro i liberali il più presto possibile, anche perché non tutti erano favorevoli all'interessamento degli europei alla causa messicana. A tal fine nel marzo 1859 i con-servatori convinsero Zuloaga a dimettersi e lo sostituirono con il suo abile comandante in seconda, il generale Miguel Miramón. Intanto Juarez resistendo ancora a Veracruz, cotrollava il commercio con l’Europa potendo emettere dazi per finanziarsi la guerra. Ii governo militare invece era in crisi nonostante il sostegno economico della Chiesa ed i finanziamenti europei.
La questione finanziaria internazionalizzò la guerra civile messicana. Il conflitto in Messico penalizzava il commercio di Londra e gli interessi inglesi e scozzesi presso le miniere d'argento di Guanajuato, Zacatecas e San Luis Potosí. Inoltre molti dei titoli di stato emessi dal Messico di Comonfort, erano in mano a rispar-miatori britannici, i quali erano preoccupati per il loro mancato rimborso. Il governo Miramón non era inten-zionato a rimborsare i capitali delle obbligazioni ed i loro interessi, in quanto non da lui sottoscritti. Al Foreign Office si pensò così, come riparazione, di annettere il Messico all'Impero, ma nel 1859 la nomina a Primo Ministro britannico di Lord Palmerston e di segretario agli esteri di Lord John Russel, più inclini al dialogo, ridusse la pressione sul Messico.
Il governo francese si dimostrò invece estremamente ostile ai liberali messicani, così come la Spagna; men-tre solo gli Stati Uniti sembravano aiutare i liberali, favorevoli anche alla loro lotta per l’emancipazione degli indios, ma anche interessati per motivi economici al Messico. Il Presidente americano, James Buchanan, preoccupato che la questione degli indios messicani fomentasse la già tesa situazione della schiavitù in A-merica, propose di riconoscere il governo di Juarez ed inviare in Messico un corpo di spedizione militare per rovesciare Miramón e porre fine alla guerra. In cambio Juarez avrebbe ceduto agli USAla bassa California, e favorito l’accordo che permetteva ad una società americana di costruire una ferrovia che collegasse l’Atlantico con il Pacifico. Ma Juarez non gradiva, 5tale accordo infatti sarebbe apparso che i liberali, pur di ottenere il potere, sarebbero stati disposti a cedere territori del proprio paese. Ma l’alleanza con gli USA era troppo importante per i liberali, in un momento in cui la guerra non sembrava a loro favorevole. Il 14 dicem-bre 1859 fu firmato un trattato con gli Stati Uniti. Il Senato americano però non lo ratificò, infatti negli USA la tensione riguardo la questione della schiavitù stava alzandosi, ed in questo momento d’incertezza e instabili-tà, a Washington si ritenne poco saggio avventurarsi nella spedizione messicana. Le forze politiche anti-schiaviste vedevano inoltre in questa iniziativa del Presidente un modo per allargare le zone della schiavitù anche a quelle messicane. Anche senza la formalizzazione della ratifica, i liberali ricevettero comunque l’aiuto dagli USA.
Grazie all’aiuto americano i liberali riuscirono ad invertire l’andamento della guerra civile. Juarez, dopo aver respinto l’assedio di Veracruz, spinse il proprio esercito verso il centro del paese, puntando verso la capitale. Il 22 dicembre 1860 Città del Messico cadeva in mano ai liberali. Due giorni prima, negli Stati Uniti l’elezione presidenziale avevano visto la vittoria di Abramo Lincoln e del partito antischiavista. In risposta a questo evento la Carolina del Sud, si staccava dalla Federazione, dando vita alla Confederazione degli Stati del Sud. Finita la guerra civile messicana iniziava quella america.
La questione dei debiti
Il primo gennaio 1861 Juarez fu eletto Presidente della Repubblica costringendo Miramón a rifugiarsi a Cu-ba. La principale preoccupazione di Juarez fu la questione del rimborso dei creditori stranieri e di tranquilliz-zare i loro governi; la Gran Bretagna infatti rivendicava un credito di 70 milioni di dollari, la Spagna 10 e la Francia 2,8, ma il Messico era in bancarotta e non aveva fondi. Quindi lo scoppio della la guerra di Seces-sione che avrebbe eluso qualsiasi reazione statunitense in Messico e la decisione, nel luglio del 1861, del Congresso messicano di sospendere il pagamento degli interessi a tutti i creditori stranieri, portò i governi europei a forzare la mano contro Juarez.
Nel settembre 1861 Hidalgo si recò a Biarritz per incontrare nuovamente Eugenia, riferendole che, secondo informazioni confidenziali, la Gran Bretagna e la Spagna erano intenzionate ad inviare a Veracruz una forza navale per prendere il controllo della dogana ed incassare i diritti doganali come rimborso. Del tema dell’incontro fu informato anche Napoleone III, che, con la guerra civile americana in atto, vedeva sotto un’ottica più favorevole l’avventura messicana. Ma Napoleone III andava oltre, pensava infatti che l'iniziativa europea avrebbe fatto cadere il governo Juarez ed allora la Francia avrebbe posto sul trono messicano un principe europeo che riconoscendo gli interessi francesi avrebbe condotto il Messico sotto il controllo di Parigi.
Da questo momento l'Imperatore francese si preoccupò di trovare quella figura idonea al trono messicano. Non poteva essere uno spagnolo perché non sarebbe stato accettato dai messicani, non un Bonaparte per-ché la Gran Bretagna non avrebbe gradito un ulteriore esponente di quella famiglia a capo di un paese. Il candidato ideale doveva essere un conservatore ed un cattolico. Si pensò così, anche per migliorare i rap-porti tra Francia ed Austria, a Massimiliano d’Asburgo (già nel 1821, i conservatori messicani avevano offerto invano il titolo d'Imperatore del Messico ad un esponente della casa d'Asburgo, il principe Carlo Luigi, Arciduca d’Austria).
Ma Massimiliano avrebbe accettato? L'Arciduca, incoraggiato dalla moglie Carlotta, era favorevole all’idea di recarsi in Messico, un paese ancora da esplorare e da sviluppare. Massimiliano si consultò quindi con Papa Pio IX e con il suocero, Leopoldo re del Belgio, il quale interpellò a sua volta la regina Vittoria, sposa del principe Alberto, nipote di Leopoldo, che gli rispose: “Il progetto messicano è pericoloso e pieno d’incertezze […] Poiché viene dalle Tuilleries, ci si deve domandare: qual è il suo scopo?” Massimiliano comunque avrebbe accettato il trono messicano solo se ne fosse stato favorevole anche suo fratello, l'Imperatore Francesco Giuseppe, il quale lo avvertì che nella sua avventura oltreoceano sarebbe stato solo, in quanto il governo austriaco non lo avrebbe potuto sostenere. Per questo l’Imperatore chiese che Massimiliano, prima di dare la propria parola, ottenesse le garanzie politiche e militari da Francia e Gran Bretagna e che inoltre fosse accettato dal popolo messicano come loro Imperatore.
Nell’ottobre 1861 nella sua residenza ufficiale, il castello di Miramare, presso Trieste, Massimiliano accettava ufficiosamente, in attesa delle condizioni indicate dal fratello. La richiesta fu girata a Napoleone III che ne fu soddisfatto, specificando inoltre che al momento della caduta del governo Juarez, un’assemblea di notabili messicani avrebbe offerto il trono a Massimiliano.
Alla vigilia di Natale, Massimiliano ricevette per la prima volta Gutierrez che gli consigliò di attivarsi presso religiosi ed ex politici messicani per preparare la popolazione in suo favore, ma l’Arciduca, senza garanzie, non era ancora convinto di sciogliere le proprie riserve.
La spedizione
La Gran Bretagna sembrava non intenzionata a partecipare alla spedizione, infatti Palmerston giudicava l’operazione destinata a fallire, in quanto pianificata al tavolo da esponenti messicani da troppo tempo lontani dal proprio paese e da quella realtà.
Napoleone III sapeva che senza la Gran Bretagna la missione non sarebbe stata possibile, quindi occorreva convincerla. Facendo leva sulle possibili opportunità economiche e strategiche dell’operazione non fu difficile far cambiare idea al governo britannico.
Il 24 ottobre 1861 fu firmata la Convenzione di Londra. Le tre potenze avrebbero mandato le proprie navi ed un contingente di 10.000 soldati per occupare solo Veracruz, uno dei porti più malsani dell’Atlantico, infesta-to dalla febbre gialla. La Spagna avrebbe contribuito con 7.000 soldati al comando del generale Prim, la Francia con 2.500 guidati dal Contrammiraglio Jurien de la Greviére e la Gran Bretagna con 700 fanti di ma-rina al comando del Commodoro Dunlop. Ben presto però le intese raggiunte dalle tre potenze sarebbero saltate.
Napoleone III, non convinto di questo programma, diede disposizioni a Jurien, una volta giunto in Messico, di tenersi pronto ad ampliare la zona d’intervento spingendosi verso l’interno. Invece Palmerston, su indicazione della regina Vittoria, dette disposizioni che i propri fanti non fossero impiegati sulla terra ferma.
Le tre flotte si sarebbero riunite a Cuba per poi insieme salpare verso Veracruz. Ma gli spagnoli decisero di non attendere le navi francesi e britanniche, e l’8 dicembre raggiunsero Veracruz. Il comando spagnolo in-formò le autorità politiche locali che erano giunti per obbligare il governo messicano a pagare gli impegni assunti con i risparmiatori spagnoli. Il 17 dicembre, senza incontrare resistenza, le forze spagnole sbarcarono, occupando la città. Le navi francesi e britanniche giunsero tutte a Veracruz tra il 6 e l’8 gennaio 1862, contemporaneamente ad altri 1.000 soldati spagnoli.
La reazione messicana all'invasione non si fece attendere. Il 15 dicembre il Congresso messicano concesse a Juarez ampi poteri d’emergenza. Il Presidente diede ordine alla popolazione di non collaborare con gli in-vasori. La città era stata in parte abbandonata e dalle campagne i contadini non inviavano i rifornimenti. Molti soldati contrassero la febbre gialla e per ottenere i viveri ed arginare l’epidemia fu necessario quindi addentrarsi oltre Veracruz.
Intanto iniziarono i negoziati per il rimborso. Il problema era che il blocco dei dazi avrebbe permesso il rim-borso del 70% dei crediti, ma il resto, il Messico non sarebbe stato in grado di restituirlo. La Francia spinse per un ultimatum di 12 milioni di dollari, la Spagna e la Gran Bretagna furono più disponibili ad un negoziato, sapendo infatti che l’ultimatum non sarebbe stato mai accettato dai messicani, e quindi avrebbe rappresen-tato per la Francia il modo migliore per giustificare una presenza in Messico più lunga.
Questa fermezza francese sulla questione dei debiti trovava giustificazione anche in un fatto non noto a molti. Il finanziamento dato al Messico proveniva dal banchiere svizzero Jean-Baptiste Jecker, che li aveva prestati con un tasso d’interesse del 30%. Il fratellastro illegittimo di Napoleone III, il duca di Morny (figlio di Carlo Augusto de Flahaut ed Ortensia di Bauhamais madre di Napoleone III), possedeva oltre il 30% di queste obbligazioni ed esercitò pressioni presso la famiglia imperiale perché venisse tutelato il suo investimento.
Napoleone mostrò i muscoli inviando ulteriori 4.000 soldati a Veracruz, mentre i negoziatori europei raggiun-sero un compromesso con il governo Juarez che concedeva alle forze alleate di trasferirsi da Veracruz al distretto di Orizaba, una zona inospitale. Verso Orizaba si mossero i francesi, mentre gli spagnoli misero base a Cordoba; i britannici invece, come da ordini, rimasero sulle navi nella rada di Veracruz.
I messicani di fronte all’avanzata degli europei, seppur concordata, decisero di formare un esercito di volon-tari, comandato prima da Zaragoza e poi da Ortega, e rifornito tramite il porto di Matamaros sul confine con gli USA.
La Francia all’attacco
Il 20 marzo Napoleone confermò il suo ultimatum: se Juarez non si fosse reso disponibile al rimborso, le truppe francesi avrebbero puntato verso la capitale messicana. La Spagna e la Gran Bretagna, desiderose di disimpegnarsi dal Messico, non avrebbero partecipato a questa operazione, ma si sarebbero ritirate, a-vendo infatti raggiunto un accordo separato con Juarez, che avrebbe pagato 13 milioni di dollari in due rate. Scaduto l’ultimatum, il generale francese Lorencez, che aveva sostituito Jurien, passò all'azione, con 6.000 soldati e l’appoggio dei conservatori locali, marciò verso Città del Messico. Il 24 aprile i francesi si scontra-rono per la prima volta con i liberali, assediando la città fortificata di Puebla, difesa da 14.000 messicani. In un solo pomeriggio i francesi però perdettero 462 uomini, l’esercito francese, giudicato il più forte del mondo, il 5 maggio fu costretto al ritiro da Puebla.
La notizia della sconfitta giunse a Parigi un mese più tardi; Napoleone III, che fino ad allora aveva diffuso ottimismo riguardo la campagna messicana, alla notizia della sconfitta decise di forzare la mano inviando 20.000 soldati e sostituendo Lorencez con il generale Forey. Il maggior sforzo militare voluto da Napoleone III suscitò in patria una maggior attenzione dell’opinione pubblica francese verso il Messico, dove adesso era in gioco il prestigio della Francia.
Per i francesi ai problemi militari si aggiungevano quelli ambientali; numerosi infatti erano i soldati colpiti dalla febbre gialla, quindi si rese necessario impiegare reparti più preparati a difficili condizioni climatiche. Fino ad allora nelle zone più malsane era stata impiegata la Legione Straniera, adesso si pensava di affiancarle truppe formate da soldati di colore, reclutati nei possedimenti africani. Parigi si rivolse quindi all’Egitto, paese politicamente vicino alla Francia, ma non indipendente, in quanto sotto il controllo dell’Impero Ottomano. L’empasse fu superato tramite un accordo segreto tra il viceré locale, che doveva il suo potere alla protezione di Parigi, e la Francia per l’invio in Messico di 1.500 uomini, in verità schiavi. Il primo gennaio 1863 la fregata francese La Seine fece scalo ad Alessandria d’Egitto, imbarcando solo 600 uomini, che, una volta giunti a Veracruz, furono assegnati all’esercito francese.
Contro i francesi Juarez cercò un appoggiò non solo politico in Washington, ma Lincoln, preoccupato che Francia e Gran Bretagna, potessero aiutare gli Stati del Sud come rivalsa al blocco dei porti imposto dall’Unione, evitò di impegnarsi apertamente con i liberali messicani.
Gli Stati dell’Unione decisero così la loro neutralità nel conflitto messicano, vietando l’esportazione di armi ai paesi belligeranti o di arruolare volontari per partecipare a quella guerra. Il divieto di esportare armi fu adot-tato anche per ridurre il rischio che agenti degli Stati Confederati potessero ordire trame per ottenere loro quel materiale bellico. I liberali comunque riuscirono a superare questo divieto attraverso trasporti clandestini che partivano dai porti di New York e San Francisco per quello di Matamaros.
Nel febbraio del 1863 iniziò la campagna militare di Forey, il generale poteva disporre di 18.000 uomini di fanteria, 1.400 di cavalleria, 2.150 artiglieri, 450 genieri, 2.300 amministrativi oltre a 2.000 soldati messicani, 56 cannoni e 2.400.000 cartucce. Contro la guerriglia liberale Foney formò dei reparti speciali chiamati con-tre-guérilla. Non erano soldati francesi, ma specialisti messicani, inglesi, francesi, spagnoli, greci, olandesi, americani, latino-americani e svizzeri, assoldati per la loro spietatezza e temerarietà, che si dimostrarono molto efficaci, terrorizzando le popolazioni locali. Erano giunti in Messico nel passato per fare fortuna, erano ex marinai, disertori, mercanti di schiavi caduti in disgrazia, cacciatori di bisonti del Nord America o predatori della Louisiana rovinati dalla guerra civile americana. A comando di questi reparti fu posto il colonnello de Steklin, ex ufficiale svizzero, mercenario presso l’esercito francese che operò supportato da due navi cannoniere poste a largo di Veracruz.
L’esercito liberale si componeva invece di 22.000 volontari concentrati prevalentemente a Puebla; ne face-vano parte anche soldati spagnoli disertori, avventurieri britannici, volontari americani e liberali europei. I soldati messicani non avevano uniformi ufficiali, ma tutti vestivano ampie camice e pantaloni bianchi, mentre negli spostamenti erano sempre seguiti dalle loro donne.
Il 16 marzo i francesi iniziarono l’assedio di Puebla, cannoneggiandola fino al 27 marzo quando fu deciso di far intervenire la fanteria. Furono impiegati anche dei minatori per l’utilizzo di esplosivi. La città fu isolata ed il 17 maggio, affamata, cadde.
La notizia della conquista di Puebla giunse a Parigi il 10 giugno, per Napoleone III era un ottima notizia, gli permetteva infatti di isolare l’intraprendente opposizione interna sempre più critica verso l’Imperatore.
Juarez, potendo porre a difesa della capitale solo 6.000 uomini, decise di spostare il governo a San Louis Potosí, a 300 km più a nord, lasciando indifesa Città del Messico che il 7 giugno fu occupata dai francesi. L’aristocrazia e la borghesia locali furono entusiaste, mentre il popolo taceva.
Napoleone III inviò un ordine a Foney:” Lei deve essere padrone a Città del Messico, ma senza dare l’impressione di esserlo.” Il 10 luglio Foney nominò una junta, composta da notabili locali, che adottò quattro provvedimenti: 1) la nazione si dà come forma di governo la monarchia ereditaria costituzionale sotto un principe cattolico, 2) il sovrano deve portare il titolo d’Imperatore, 3) l’offerta del trono è fatta a Massimiliano, 4) se Massimiliano dovesse rinunciare il trono andrà ad un principe scelto da Napoleone III. I messicani non avevano più dubbi, l’autorità in Messico era in mano ai francesi.
Nonostante i successi, i francesi controllavano solo la zona tra Veracruz e Città del Messico ed anche in queste zone la guerriglia messicana era ancora attiva. Napoleone III comunque tranquillizzò l’Arciduca con-fermandogli che in breve tempo il Messico sarebbe stato liberato; Massimiliano comunque attendeva ancora la garanzia presentata dall’alleanza tra Messico, Francia e Gran Bretagna.
Nelle settimane successive il generale Foney fu sostituito dal generale Bazaine, che usò il pugno di ferro contro i liberali e contrastò i conservatori e la Chiesa promotori di una politica reazionaria. Bazaine interferì anche nell’amministrazione locale, tanto che il generale fu scomunicato dall’arcivescovo di Città del Messico. Foney nel rientrare a Parigi cercò di illustrare a Napoleone III i pericoli della spedizione, ma l’Imperatore, influenzato da sua moglie che per lui in Messico vedeva ambiziosi progetti, non se ne preoccupò.
Il 3 ottobre ci fu a Trieste il primo incontro tra la delegazione messicana e Massimiliano, durante il quale gli venne ufficialmente offerto il trono messicano. L’Arciduca rispose che le condizioni, richieste due anni prima per accettare il trono, non era state ancora soddisfatte.
L’offensiva militare fu quindi più decisa e portò i francesi a controllare ampie zone del paese, tanto da poter bandire un referendum popolare sulla salita al trono di Massimiliano, che, nonostante il boicottaggio dei liberali, fu favorevole a Massimiliano Imperatore del Messico. I dubbi di Massimiliano iniziarono ad allontanarsi. Napoleone III inoltre gli confermò che la Francia avrebbe mantenuto in Messico 25.000 soldati almeno per altri tre anni ed 8.000 legionari per i successivi dieci anni, Inoltre fu raggiunto un accordo ufficioso tra Parigi ed Washington, autorizzato dal confermato Presidente Lincoln, in cui si stabiliva che la Francia non avrebbe riconosciuto od aiutato gli Stati Confederati ed in cambio gli Stati del Nord sarebbero rimasti estranei al conflitto messicano.
Ma un nuovo problema si presentò il 27 marzo, quando Francesco Giuseppe impose a Massimiliano di fir-mare il Patto di Famiglia, una sorta di contratto in cui l’Arciduca si impegnava a rinunciare al trono d’Austria. Massimiliano si rifiutò di firmarlo, rinunciando invece al trono del Messico; Napoleone III alla notizia si trovò spiazzato ed intervenne presso l’Imperatore d’Austria perché trovasse un compromesso.
Il compromesso fu raggiunto, nel caso in cui Massimiliano avesse abdicato dal trono del Messico, Vienna avrebbe salvaguardato le posizioni di Massimiliano nell’Impero d’Austria, compatibili però con gli interessi del medesimo. L’Imperatore si sarebbe preso cura del fratello della moglie e degli eredi; oltre a corrispondergli una rendita ed autorizzare il reclutamento in Austria, di volontari per l’esercito messicano. Francesco Giuseppe si recò a Trieste per la firma del Patto che avvenne il 9 aprile 1864, quella fu l’ultima volta che i due si videro.Tutti gli ostacoli alla salita al trono del Messico erano stati rimossi o quasi.
L’Imperatore Massimiliano I
Il 10 aprile 1864 al castello di Miramare, l’Arciduca Max (come lo chiamavano amichevolmente i triestini) ri-ceveva la delegazione messicana, guidata da Gutierrez, che lo avrebbe proclamato Imperatore del Messico. Gutierrez elogiò la coppia reale per la loro scelta, confermandoli che il Messico era da sempre legato al cat-tolicesimo ed alla monarchia, ma nel suo discorso non citò mai Juarez e la guerra civile. Massimiliano, rin-graziando, lesse un testo preparato, discusso, corretto e censurato da suo fratello e dai ministri austriaci che indicava che i documenti che gli erano stati sottoposti lo avevano convinto ad accettare in quanto Imperatore, non solo dalla junta, ma dalla grande maggioranza del popolo messicano. Promise di regnare da monarca costituzionale e di concedere una costituzione liberale non appena fossero terminati i disordini. Massimiliano firmò solennemente l’accettazione del trono, come Massimiliano I, prestando inoltre giuramento di difendere l’indipendenza del Messico, l’inviolabilità del suo territorio e di vegliare sul benessere del popolo messicano. In quel momento sul tetto del castello si issava il tricolore messicano. Il neo Imperatore sottoscrisse anche un trattato con la Francia, e nominò i propri ambasciatori presso le varie corti europee. L’Impero messicano fu subito riconosciuto da Francia, Austria, Belgio, Svizzera, Svezia, Prussia, Portogallo, Spagna, Russia e dall’Italia (provocando la reazione negativa di Garibaldi e dei liberali italiani), la Gran Bretagna, più cauta attese l’autunno prima di riconoscerlo, mentre gli USA si rifiutarono di farlo.
Il 14 aprile 1864 la coppia imperiale partì da Trieste sulla fregata Novara, mentre una folla si accalcò sui moli per salutarla. Il Novara, scortato dalla nave da guerra francese Thenis, scese l’Adriatico, risalì il Tirreno per giungere a Civitavecchia; qui la coppia scese per raggiungere Roma ed ottenere la benedizione dal Papa, dopo alcuni giorni riprese il mare per il Messico.
Il Novara giunse a Veracruz il 27 maggio, gli imperatori sbarcarono la mattina successiva, accolti da un fan-tastico ricevimento voluto dalle autorità locali, mentre la popolazione riservò un’accoglienza molto fredda che li accompagnò fino a Città del Messico. Ad Orizaba furono perfino accolti con manifesti e grida inneggianti alla repubblica ed all’indipendenza. I più entusiasti nell’accogliere Massimiliano furono invece gli indios, i quali, come i loro avi che avevano ben accolto il conquistador Cortés, videro in Massimiliano il dio dalla pelle chiara, che secondo il mito sarebbe giunto dal mare per salvarli.
Il 12 giugno il corteo imperiale giunse a Città del Messico accolto da una numerosa e festante folla. La cop-pia prese alloggio presso il Palazzo di Chapultepec, costruito sulle rovine di quello di Montezuma, poco fuori dalla città.
Massimiliano si alzava ogni mattina alle 4 e nelle tre ore successive sbrigava la corrispondenza, alle 7 usciva per una passeggiata a cavallo ed alle nove rientrava per fare colazione, poi dava inizio alla giornata con le incombenze ufficiali (riunioni di gabinetto, udienze e cerimonie di stato), per le quali dimostrava di annoiarsi. Alle 20 dopo una frugale cena andava a letto. Nei mesi successivi, in un viaggio nello stato di Michoacán contrasse la malaria.
Le difficoltà si presentarono subito a Massimiliano, mancavano i soldi per pagare i soldati contro l’attivissima guerriglia liberale, la corruzione era endemica, mentre il debito del paese da 120 milioni di dollari passò, nei due anni successivi, a 210 milioni.
Inoltre c’era da sanare la disputa sulle proprietà messicane della Chiesa e le altre questioni in sospeso tra la Chiesa e lo Stato. L’inviato vaticano, Monsignor Meglia, giunse in Messico con un ultimatum papale che esi-geva che fosse ripristinato lo stato di cose esistenti al tempo della conquista spagnola, in aggiunta dovevano essere abolite le riforme introdotte dal governo Juarez, non si doveva incorporare nel patrimonio statale le proprietà ecclesiastiche ne si doveva concedere la libertà di culto alle altre religioni. Massimiliano non accettò e si inimicò la Chiesa fino ad essere accusato dal clero di massoneria. Difficili erano anche i rapporti con il comando francese, Massimiliano infatti criticava l’interferenze di Bazaine nell’amministrazione del paese.
La strategia francese
La guerra contro i liberali nel frattempo proseguiva. Nel settembre 1865 la flotta francese conquistava Mata-maros, mentre la fanteria, guidata da Bazaine, occupava Monterrey e Saltello, costringendo Juarez a rifu-giarsi a Chihuahua, a 700 km a nord-ovest dalla capitale, abbandonato da molti suoi fedeli che passavano a collaborare con i francesi. Nonostante ciò l’esercito francese trovò ancora resistenze, in particolare al sud, a Oaxaca, città fortificata, difesa da 3.000 volontari messicani guidati dal Porfirio Diaz. Il 15 gennaio 1865 i francesi assediarono Oaxaca, il 4 febbraio, per sbloccare la situazione, decisero di bombardare per 24 ore la città provocando vittime e defezioni tra i messicani. Diaz fu così costretto ad arrendersi. Arrestato riuscì clamorosamente ad evadere ed a raggiungere Juarez. Ormai quasi tutto il Messico era sotto il controllo dell’Impero, Massimiliano controllava 24 stati contro i quattro (Guerreo, Chihuahua, Sonora e Bassa Califor-nia) sotto l’autorità di Juarez, in cui viveva solo il 7% degli otto milioni di messicani.
L’esercito francese aveva ormai conquistato tutto il paese, Napoleone III pensava quindi adesso possibile una riduzione della presenza militare francese, sebbene fosse interessato alla presa dello stato di Sonora, ricco di miniere, per annetterlo alla Francia come ricompensa per il proprio contributo alla causa imperiale. La preoccupazione per una reazione americana portò i francesi a conquistare Sonora però senza annetterla.
A Parigi l’opposizione liberare e parte dell’opinione pubblica iniziava a chiedere il rientro delle truppe francesi dal Messico; l’operazione militare aveva infatti raggiunto i suoi obiettivi e l’avventura messicana iniziava a non essere più popolare.
La possibilità del ritiro francese era nell’aria, non a caso giunsero dall’Europa ulteriori rinforzi per l’Impero, ma principalmente per sostituire le truppe francesi. Tra il dicembre 1864 ed il gennaio 1865 arrivarono 1543 belgi (dopo la richiesta dell’Imperatrice Carlotta al padre) e 7.000 austriaci, che operarono nella zona di Puebla, oltre a volontari ungheresi, italiani, croati e polacchi. Una parte dei volontari austriaci andò a formare reparti antiguerriglia. La guerriglia liberale infatti continuava ad essere attiva nelle zone del nord-ovest (Tam-pico, Tuxpán) e presso Michoacán, a 150 km dalla capitale, tra vette altissime ricoperte da fitti boschi e nebbia, dove i francesi non si avventuravano.
In primavera iniziarono manifestazioni popolari contro la presenza (occupazione) francese, la provincia di Tamaulipas insorse. Juarez riescì a far infiltrare propri uomini tra i reparti di volontari che appoggiavano i francesi e nelle retrovie francesi oppure accedendo al sistema di telegrafia che i francesi avevano realizzato per comunicare con le province più lontane; il controllo del paese diventava molto difficile. Le iniziali certezze di Napoleone III, vittoria degli Stati del Sud degli USA, rapida affermazione di Massimiliano in Messico ed eliminazione della resistenza liberale, erano naufragate; occorreva quindi disimpegnarsi dal Messico per evitare conseguenze peggiori.
Gli Stati Uniti
L’avanzata francese era coincisa con la scelta di Washington di porsi neutrale riguardo la guerra messicana, una scelta imposta dalla guerra di Secessione. Ma il 9 aprile 1865 gli Stati Confederati si arrendevano con-segnando la vittoria agli Stati del Nord, una vittoria pagata cara con l’uccisione, il 14 aprile, di Lincoln. Dopo tutto ciò come avrebbero continuato gli Stati Uniti a vedere la presenza europea in Messico? Il neo presiden-te, Andrei Johnson ed il Segretario di Stato, già di Lincoln, William H. Seward, confermarono la neutralità.
Ma sull’argomento l’amministrazione americana era divisa; il generale Grant, eroe nordista, vincitore della guerra civile e futuro Presidente, e numerosi ministri simpatizzavano per i liberali messicani, tanto che 40.000 soldati statunitensi, comandati dal generale maggiore Philip Sheridan, furono inviati sul confine messicano, per far credere ai francesi di una prossima invasione. Tale operazione era stata voluta autonomamente dal generale Grant, il quale aveva avuto la disponibilità all’utilizzo dei militari da Johnson, ma solo perché questi sapeva che i soldati dovevano essere impiegati per pattugliare il confine dagli sbandati sudisti.
Nonostante gli americani Bazaine decise di attaccare Juarez per eliminare il problema dei liberali e conse-gnare a Massimiliano il Messico intero e quindi ritirarsi. L’offensiva francese costrinse Jaurez, rimasto con solo 800 uomini, a ripiegare ancora più a nord, al El Paso, a 1.700 km dalla capitale; qui i francesi non osa-rono stanarlo preoccupati della reazione di Washington; ad El Paso Juarez ricevette infatti la visita di ufficiali statunitensi, di base poco dopo il confine.
Ulteriori aiuti a Juarez provennero sempre da Grant che ordinò a Sheridan di fornire ai messicani 30.000 moschetti oltre a cannoncini Weitzel, prelevandoli dai magazzini lungo il Rio Grande e di inviare oltre confine piccoli reparti di soldati americani, composti solo da uomini di colore. Il 5 gennaio 1866 agli ordini del gene-rale Crawford i reparti di colore attaccarono la guarnigione francese di Mejía, alla foce del Rio Grande, riti-randosi solo due giorni dopo. Anche i congedati dell’esercito dell’Unione si recarono in Messico come volontari per combattere a fianco dei liberali, attratti anche dalle paghe promesse da Romero, l’ambasciatore di Juarez a Washington. A New York nella 10^ Avenue fu istituito un ufficio di arruolamento per chi avesse voluto combattere a fianco di Juarez.
Napoleone III si convinse che gli USA avrebbero potuto ben presto abbandonare la loro neutralità. Il 21 gen-naio l’Imperatore francese prese la decisione ormai da tempo scritta, di fronte all’Assemblea Nazionale pro-clamò il ritiro delle truppe francesi dal Messico. Il piano di rientro prevedeva che ad ottobre 9.000 soldati francesi sarebbero partiti ed altri 9.000 lo avrebbero fatto nel marzo 1867. Massimiliano non informato da Napoleone III protestò per il mancato rispetto delle garanzie promesse; mentre Bazaine, avuta la conferma del prossimo ritiro, per limitare i danni, evacuò Chihuahua e concentrò più a sud i propri reparti, molti legio-nari invece scelsero di passare dalla parte dei liberali.
Si allentava così l’assedio a Juarez, che iniziò a marciare verso sud, riconquistando le località lasciate dai francesi; questi infatti si ritiravano e combattevano solo se attaccati, mentre i messicani non li attaccavano sapendo del loro imminente ritiro.
L’isolamento di Massimiliano
Massimiliano poteva contare adesso solo sui volontari europei, una forza però troppo esigua per controllare il paese, inviò così propri agenti in Europa per arruolare altri uomini. 4.000 furono presi in Austria, ma il 15 maggio 1866, alla vigilia della partenza per il Messico dal porto di Trieste, questi volontari furono bloccati dalle minacce di Seward di rompere i rapporti con l’Austria, questa allora proibì che agenti messicani svol-gessero attività di arruolamento sul proprio territorio. Non solo, ritirò la propria forza dal Messico, coloro che vi rimasero lo fecero come volontari.
L’isolamento diplomatico di Massimiliano aumentò in seguito ad altri eventi: era morto il duca di Morny, Lord Palmerston era stato sostituito da Lord Russell che non avrebbe mai appoggiato la Francia contro gli USA in un’eventuale guerra per il Messico, infine era deceduto anche re Leopoldo di Belgio. Intanto gli Stati Uniti revocavano la loro posizione di neutralità perché l’opinione pubblica mal tollerava l’atteggiamento europeo in Messico, e Seward, saputo del ritiro francese adottò un atteggiamento più fermo verso la Francia e Massimiliano.
Il 9 luglio l’Imperatrice Carlotta decise quindi di lasciare il Messico per recarsi prima a Parigi e poi a Roma, per cercare di ottenere nuovi aiuti per Massimiliano. Non sarebbe più tornata. In seguito ai rifiuti ricevuti in Europa in lei si manifestarono i primi segni di pazzia, infatti dopo poche settimane le sue condizioni di salute peggiorarono tanto che Leopoldo II, suo fratello, decise di farla rientrare in Belgio. Massimiliano perdeva così anche gli affetti più cari.
In estate Napoleone III, decise di fare rientrare tutte le truppe a marzo del 1867, anche quelle che dovevano abbandonare il paese ad ottobre 1866, tranquillizzando Washington sul fatto che la scelta del rinvio era do-vuta ad evitare che lo scaglionamento indebolisse troppo la forza francese lasciandola indifesa alla vendetta liberale. A conferma di ciò Napoleone III informò Seward che avrebbe svolto attività di convincimento presso Massimiliano perché abdicasse, e per evitare che il Messico cadesse nel caos propose invano che gli USA occupassero il paese, tutelando però gli interessi degli stranieri. Comunque nelle prime settimane del 1867 i francesi iniziano a smobilitare da Città del Messico.
Il 25 novembre Massimiliano rifiutò di abdicare e decise di rimanere a capo del suo esiguo esercito, 21.000 soldati contro i 70.000 di Juarez. il 13 febbraio partì con 9.000 uomini verso nord per affrontare Juarez rag-giungendo il 9 febbraio la cittadina di Querétaro. I liberali, informati dell’azione imperiale, il 6 marzo con 35.000 uomini assediarono la città. Massimiliano avrebbe avuto una via di salvezza, infatti a Veracruz una nave era ad attenderlo per portarlo in Europa, ma l’Imperatore decise di non approfittarne. I francesi che sta-vano concludendo le operazioni d’imbarco a Veracruz, non intervennero in suo aiuto, il 13 marzo tutti i solda-ti francesi avevano abbandonato il paese. Bazaine rientrò in Francia, a Tolone, a fine aprile senza che fosse accolto da alcuna particolare ed ufficiale riconoscenza; Napoleone III voleva dimenticare al più presto l’Impero del Messico.
I liberali nel frattempo riconquistavano Puebla, Diaz puntava a Città del Messico, mentre Querétaro non a-vrebbe resistito a lungo; infatti il 14 maggio i liberali entrarono in città. Massimiliano fu arrestato e rinchiuso nel locale convento dei frati cappuccini. Qui fu informato che una corte marziale lo avrebbe processato con l’imputazione di tradimento ai danni della repubblica messicana. Il 13 giugno, presso il teatro cittadino, si svolse il processo, Massimiliano malato non si presentò in aula, presenti invece i suoi coimputati, Miramón ed il generale Tomás Mejía. Il giorno successivo la corte emanò la sentenza: condanna a morte tramite fuci-lazione per i tre da eseguirsi il giorno 16 giugno, in quanto vi era fretta di eliminare la minaccia Massimiliano. Gli avvocati difensori chiesero la grazia a Juarez, il quale concesse solo il rinvio dell’esecuzione al 19 giu-gno. Nell’attesa della sua esecuzione Massimiliano lesse la Storia d’Italia di Cesare Cantù, scrisse a sua madre, e stabilì che avrebbe affrontato la morte avendo alla sua destra Miramón, in riconoscenza del suo valore, ed alla sua sinistra Mejía.
Il tragico epilogo
Nei giorni precedenti l’esecuzione alcuni paesi si mossero per salvare la vita all’Imperatore, sebbene nessun paese avesse rapporti diplomatici con il Messico di Juarez. Pertanto le suppliche furono avanzate agli USA per poi girarle al governo liberale messicano. Garibaldi dall’Italia e Victor Hugo dalla Francia, sostenitori del-la causa liberale, scrissero a Juarez di graziare Massimiliano; anche la stampa statunitense si mosse per sostenerne la grazia. Ma Juarez era convinto che rimanendo in vita Massimiliano avrebbe continuato a pre-tendere il trono del Messico e sarebbe stato sempre un punto di riferimento per i conservatori messicani. L’esecuzione andava eseguita. Alle ore 6 del 19 giugno Massimiliano, indossando una rendigote nera ed un cappello bianco, fu condotto sul colle di Cerro del las Campanas, dove ad attenderlo vi erano 3.000 soldati e 50 spettatori. Scendendo di carrozza consegnò al suo inserviente il cappello ed il fazzoletto perché li consegnasse a sua madre. I tre condannati furono riuniti e posti di fronte al plotone d’esecuzione, ma in maniera diversa da come stabilito alla vigilia: Massimiliano a sinistra, Miramón al centro e Mejía a destra. Massimiliano chiese se fosse possibile regalare a ciascuno dei sei componenti del plotone una moneta d’oro e nel consegnarle li pregò di prendere bene la mira e colpire al cuore e non al viso in modo che sua madre potesse vederlo per l’ultima volta. Come ultima volontà invece fece un breve discorso in spagnolo che si concluse con “Viva il Messico!”; dopo di che fu dato l’ordine di sparare. Sei colpi, tre mortali, centrarono l’ex Imperatore, Miramón e Mejía furono colpiti in un secondo momento mentre gridavano: “Dio benedica l’Imperatore!” Alle 6.40 tutto era finito.
Il 21 giugno cadeva Città del Messico, il 15 luglio Juarez fece il suo ingresso trionfale nella capitale.
Dopo due mesi, la salma di Massimiliano fu imbarcata sul Novara per essere condotta in patria. Giunse pri-ma a Trieste e poi a Vienna dove fu seppellita nella cripta della Cappella dei Cappuccini; Francesco Giusep-pe non si abbandonò a grandi dimostrazioni di dolore, mentre Carlotta, alienata dalla pazzia, non fu in grado di assistere alla cerimonia.
Il destino tragico si accanì anche su gli altri protagonisti: Juarez eletto Presidente morì d’infarto nel 1872, la stessa sorte che era toccata a Gutierrez, deceduto a Città del Messico solo poche settimane dopo Massimi-liano. Napoleone III invece morì in esilio, la guerra persa contro la Prussia nel 1870 aveva posto fine definiti-vamente anche alla monarchia francese.
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-- APPROFONDIMENTI--


Massimiliano e Carlotta
Ferdinando Giuseppe Massimiliano nacque il 6 luglio 1832 a Schönbrunm (Austria) da Sofia di Baviera e da Francesco Carlo, Arciduca d'Asburgo. Il fratello di Massimiliano, Francesco Giuseppe, nato nel 1830, sareb-be diventato Imperatore d'Austria-Ungheria nel 1848, all'abdicazione dello zio Ferdinando I, che non aveva eredi, ed alla rinuncia del padre.
Francesco Giuseppe era ordinato, metodico ed interessato alle vicende militari; Massimiliano invece era un sognatore, con inclinazioni artistiche, un cattolico praticante con un alto senso dell'onore e nutriva una gran-de ammirazione verso il fratello Imperatore. Credeva nella monarchia assoluta, ma non escludeva la possibi-lità di costituire assemblee popolari e per questo criticò la politica repressiva del cugino Ferdinando II, re di Napoli, e quella austriaca nei Balcani. Massimiliano era alto e snello, con una carnagione chiara, occhi az-zurri, capelli e barba biondi dorati, usava portare, secondo la moda del periodo, la barba lunga divisa nel mezzo ed a punta ai lati. Nel 1850 entrò in Marina in forza al comando della flotta dell'Adriatico; visitò l'Alba-nia, la Grecia, la Turchia, la Spagna e la Francia. Qui, a Parigi, fece il suo primo incontro con Napoleone III. L'impressione fu negativa; Massimiliano giudicava l'Imperatore di Francia privo di d'alcuna nobiltà. Visitò il Belgio di re Leopoldo, di cui conobbe la figlia, la sedicenne Carlotta che sposò nel 1857. Nello stesso anno Francesco Giuseppe, intenzionato a adottare in Italia una politica più liberale ed a sostituire il novantenne Radetzsky, nominò il fratello viceré del Lombardo-Veneto. Durante questa carica, Massimiliano cercò invano di conquistarsi la simpatia dei sudditi con promesse di maggior autonomia, ma con lo scoppio della guerra del 1859 (Francia e Piemonte contro l'Austria), Massimiliano fu inviato a Venezia al comando della flotta. Alla fine della guerra si recò prima a Madera e poi in Brasile per studi naturalistici, la sua passione; al rientro si occupò della costruzione del castello di Miramare, presso Trieste, un esotico edificio, mai completato, che divenne la residenza ufficiale della coppia fino alla loro partenza per il Messico. Dal 1861 il loro rapporto matrimoniale entrò in crisi, Carlotta, insistette perché Massimiliano accettasse il trono messicano, auspicando per il marito potere e gloria; Massimiliano invece era più interessato ai viaggi di studio. In Messico il rapporto naufragò, Massimiliano tradì la moglie con altre donne, contraendo anche la sifilide; alcune cronache riportano infatti che nel 1917, a Parigi, fu fucilato un messicano, biondo e di carnagione chiara, di nome Sedano, con l'accusa di essere una spia tedesca. Sedano, da un'indagine sarebbe risultato essere il figlio che Massimiliano avrebbe avuto da una giardiniera del palazzo imperiale di Città del Messico, con la quale l'Imperatore aveva intrattenuto una lunga relazione.
Carlotta inoltre non poteva avere figli, quindi per dare un erede all'Impero, nel 1865, Massimiliano decise di adottare Augustín Iturbide, il nipote di un ex Imperatore messicano, in seguito ad un accordo con la madre del piccolo, la statunitense Alice Green. Questa però, al momento di consegnare il figlio, si rifiutò inutilmente di cederlo e fu espulsa. Massimiliano riconsegnò il piccolo alla madre naturale solo nel febbraio del 1867, quando l'Impero messicano, in dissoluzione, non avrebbe più avuto bisogno di principi.
Carlotta soffrì molto il difficile rapporto instauratosi con il marito tanto che, negli ultimi mesi della sua permanenza in Messico, iniziarono a manifestarsi in lei segni di squilibrio che si sarebbero scatenati in pazzia al suo rientro in Europa. Nel soggiorno a Roma, nell'autunno del 1867, si sentiva minacciata, vedeva ovunque nemici che volevano avvelenarla. Si recò in udienza dal Papa senza essere stata invitata e si rifiutò di abbandonare la sede papale per paura di essere assassinata. Il Papa mosso a compassione fece dormire Carlotta in un convento di suore, per la prima volta una donna dormiva in Vaticano. Fatta rientrare immediatamente in Belgio, dopo aver vissuto isolata per sessant'anni in un castello di campagna, morì pazza nel 1927 ad 86 anni.
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Gli eroi di Camerone
Gli eroi di Camerone
Il 29 aprile 1863, il comando francese in Messico ordinò alla 3^ Compagnia del I° Battaglione della Legione Straniera di scortare da Veracruz a Puebla una carovana, costituita da 60 carri e 150 muli, che trasportava rifornimenti e 3 milioni di franchi d'oro. La Compagnia, normalmente composta da 112 legionari e 3 ufficiali, decimata dalla febbre gialla poté impiegare solo 62 uomini, in prevalenza polacchi, italiani, tedeschi e spa-gnoli, senza nessun ufficiale. Il capitano Danjou, eroe di Crimea, dove aveva perso la mano destra, sostituita da una protesi di legno sempre coperta da un guanto bianco, si offrì volontario per il comando della missione, rifiutando i rinforzi.
Il 30 aprile, al fine di perlustrare il percorso della marcia, la Compagnia si mise in movimento precedendo la carovana. Alle ore 7, con gli uomini schierati in doppia fila lungo i lati della strada, la colonna attraversò le rovine del piccolo villaggio abbandonato di Camerone. Appena fuori il villaggio, sulle alture circostanti, Dan-jou vide apparire numerosi soldati messicani a cavallo, questi erano stati informati della missione francese dall'efficiente rete spionistica allestita dal governo di Juarez. Il capitano decise di far ripiegare i propri uomini presso le rovine di Camerone, schierando la Compagnia in un rettangolo presso della vegetazione, in modo da impedire alla cavalleria nemica di caricare. Strategia questa usata dalla Legione in Africa contro le tribù locali, ma mai adottata contro un così numeroso avversario; i messicani infatti erano 2.000 (800 cavalieri e 1.200 fanti). Nel ripiegamento i francesi persero 16 uomini. I legionari inoltre conquistarono una buona posizione difensiva tra le rovine, riuscendo a respingere i successivi attacchi della cavalleria. Dopo un ora i legionari erano senza acqua e con poche munizioni a disposizione, infatti i muli con l'equipaggiamento erano caduti in mano ai messicani, mentre la carovana con l'oro, che per sicurezza durante la marcia era rimasta più indietro, nel momento in cui udì gli spari messicani, ripiegò in fretta verso la base, salvando il prezioso carico. Lo scontro si protrasse fino al pomeriggio, i messicani mossero continui assalti postazione francese senza mai sfondarla. Alle ore 11 Danjou era stato colpito mortalmente da un cecchino, mentre alle 14 moriva il suo vice-comandnate, il tenente Villain. Il comando passò al sottotenente Maudet che alle ore 17 era rimasto solo con 12 legionari. I messicani cercarono di stanare i francesi dando fuoco alla zona, ma i legionari riuscirono a spegnere il fuoco. Un ora dopo resistevano Maudet, il caporale francese Maine ed i soldati semplici Wenzel, tedesco, Katan, polacco, Constatin, austriaco e Leonhart, svizzero, ognuno con una sola cartuccia a disposizione.. Rimaneva quindi una sola possibilità, la carica suicida. Maudet ordinò il fuoco al suo ordine e poi di seguirlo nella breccia per la carica finale. Maine, Katan, assieme ad un ferito, gli unici superstiti, furono fatti prigionieri.
All'alba del giorno successivo un reparto di soccorso francese entrò in Camerone ormai troppo tardi; furono seppelliti i morti, ma mancò all'appello il corpo del capitano Danjou, di cui fu rinvenuta solo la protesi di le-gno, che raccolta fu inviata al quartier generale della Legione a Sidi-bel-Ablès, in Algeria, divenendo la reli-quia più sacra del Corpo. Dal 1962, dopo il trasferimento della Legione dall'Algeria alla Francia, la mano di Danjou è conservata nel museo del Comando della Legione Sraniera ad Aubagne, presso Marsiglia; ogni anno il 30 aprile la Francia commemora solennemente gli eroi di Camerone.
RDF


Bibliografia Orientativa:
J. Ridley, Massimiliano e il sogno del Messico, Rizzoli, Milano, 1993.
C. Bruni, Massimiliano: Sangue e orrori di una rivoluzione messicana, De Vecchi, Milano, 1966.
R. O’Condor, Il trono di cactus: la tragedia di Massimiliano e Carlotta, Club degli Editori, Milano, 1973.
L.R. Loseri (a cura di), Massimiliano: rilettura di un’esistenza-Atti del Convegno, Trieste 4-6 marzo 1987, E-dizioni della Laguna, Monfalcone, 1992.
J. Haslip, Massimiliano e Carlotta, Longanesi, Milano, 1982.

(Nella foto il Castello di Miramare, presso Trieste)