giovedì 28 luglio 2011

Eccesso di sicurezza

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

L’associazione della stampa estera a Gerusalemme ha ufficialmente protestato nei confronti del governo israeliano per denunciare l’umiliante trattamento riservato ad alcune giornaliste accreditate alle conferenze stampa ed all’ufficio del premier Benjamin Netanyahu. Infatti per motivi di sicurezza, alle giornaliste in queste occasioni, prima di accedere alla sala stampa od all’ufficio del premier, si chiede di sottoporsi a dei controlli rigorosi, compreso togliersi il reggiseno dietro ad una tenda per farlo passare ai raggi x. E questo capita ormai da oltre un anno. Naia Simri Diab, reporter di Al Jazeera così racconta la perquisizione di alcuni mesi fa (dal Corriere della Sera): “Mi hanno detto di togliermi la maglietta.[…] Sono rimasta con la biancheria intima e i pantaloni. L’agente, una donna mi ha palpeggiato per 15 minuti. Le ho spiegato che ero incinta e le ho chiesto di non passare lo scanner manuale, ma ho ceduto anche su quello”.
Oren Helman, direttore dell’ufficio stampa governativo, si è scusato a nome del governo, ma sembra non cambiare la procedura dei controlli.
RDF

mercoledì 27 luglio 2011

Storia - La spedizione piemontese in Crimea

Mentre in questi giorni si discute in Parlamento per rifinanziare le missioni militari italiane all'estero, voglio qui ricordare, con un mio articolo, la spedizione piemontese in Crimea del 1855. In quell'anno il Regno sabaudo decise di inviare 18.000 soldati a 3.000 km di distanza, in una guerra in cui non vi era in gioco alcun interesse piemontese, perchè era l'unica scelta per Cavour di portare la questione italiana all'attenzione delle potenze di quel periodo. Grazie anche a quella dolorosa scelta, di partecipare ad una guerra, è nata l'Italia, l'Unità d'Italia.

Articolo Pubblicato su RID - Rivista di Difesa Italiana nel 2004
Testo di Roberto Di Ferdinando


La spedizione piemontese in Crimea

Nel maggio del 1855 il Regno di Sardegna inviò circa 18.000 soldati in Crimea, sul Mar Nero, in appoggio agli eserciti francese, britannico e turco, che stavano combattendo la guerra contro quello russo. Il conflitto, scoppiato alcuni anni prima, rientrava nelle vicende della questione orientale, cioè la crisi dell’impero otto-mano e le sue difficoltà nel controllare i proprî vasti domini che aveva portato le potenze europee ad ambire al controllo di alcuni territori turchi.
Nel 1853 la Russia dello zar Nicola I, con un pretesto, agì per prima occupando militarmente gli strategici principati danubiani della Moldavia e della Valacchia, vassalli del Sultano. La Turchia, vista l’impossibilità di risolvere diplomaticamente la crisi, in ottobre dichiarò guerra alla Russia. Nei mesi successivi si creò un’alleanza antirussa che comprendeva, oltre all’Impero di Costantinopoli, anche la Francia e la Gran Breta-gna, quest’ultime interessate ad impedire l’espansione russa verso gli Stretti dei Dardanelli. Il conflitto fu combattuto inizialmente in Bulgaria e sugli Stretti per poi, nel settembre del 1854, trasferirsi nella penisola di Crimea, dove gli scontri si concentrarono nell’assedio degli alleati contro la piazzaforte russa di Sebastopoli. Qui giunsero i piemontesi.
Il Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri del Regno di Sardegna, Cavour, in accordo con il Re, Vittorio Emanule II, decise di inviare un proprio corpo militare a circa 3.000 chilometri di distanza, in una guerra che non coinvolgeva nessun interesse diretto per il Piemonte, per motivi di strategia diplomatica. Cavour infatti era convinto della vittoria degli alleati, sebbene questi in Crimea stessero incontrando maggiori difficoltà del previsto, e sapeva che partecipare alla vittoria avrebbe permesso al Piemonte di sedersi al tavolo dei negoziati di pace e quindi portare all’attenzione delle potenze europee la questione italiana.
Una tale iniziativa non era però priva di incognite. Infatti per il Regno di Sardegna, che era il più piccolo stato partecipante al conflitto, l’invio di un contingente all’estero era uno sforzo militare ed economico note-vole. Vi era infatti la preoccupazione di lasciare indifeso il paese, in un momento in cui la nemica Austria, filo-russa, ma dichiaratasi neutrale nel conflitto di Crimea, rappresentava sempre una vicina minaccia; e mentre il Piemonte continuava a soffrire di una crisi finanziaria ereditata dalla disfatta del 1848-49 proprio contro gli austriaci.
Le iniziali riserve di Cavour a partecipare alla coalizione anti-russa, furono però sciolte dall’impegno militare di Parigi e Londra di garantire l’integrità del regno sardo, mentre sul piano finanziario la Gran Bretagna a-vrebbe anticipato al Piemonte un prestito di un milione di sterline (oltre 80 milioni di euro), ed un altro ancora se la guerra si fosse protratta per più di un anno. Infine Londra s’impegnava a trasportare le truppe piemon-tesi in Crimea su proprie navi e gratuitamente.
Il 26 gennaio 1855 Vittorio Emanuele II firmò così la convenzione militare con Francia ed la Gran Bretagna, con la quale il Piemonte si obbligava a fornire un corpo d’armata di 15.000 uomini e a mantenerlo di tale nu-mero con successivi rinforzi. Dopo l’approvazione della convenzione da parte del Parlamento di Torino, in marzo l’alleanza divenne operativa.

I preparativi
Ancor prima che il governo piemontese decidesse ufficialmente di prendere parte alla guerra di Crimea, da Torino erano stati inviati ufficiali in Francia per studiare e riferire alle intendenze militari sarde le modalità con cui i francesi avevano preparato la loro spedizione. In particolare si documentarono sull’imbarco delle truppe e dei materiali e sull’organizzazione dei servizi di sussistenza e sanitario. Tra questi ufficiali vi era il futuro comandante del corpo di spedizione, il generale Alfonso La Marmora, ed il futuro responsabile della gestione degli approvvigionamenti a Costantinopoli, il maggiore Alessandro Della Rovere.
Al momento della firma dell’alleanza furono attivate le intendenze militari di Torino e Genova che, sulla base delle relazioni dalla Francia, procedettero all’acquisto di biscotti (gallette), carne salata, foraggi, vestiario ed equipaggiamento per tre mesi. Questo materiale avrebbe dovuto anticipare lo sbarco delle truppe ed in parte lo avrebbe accompagnato. Il problema era che non si sapeva ancora dove il corpo di spedizione sarebbe sbarcato.
Fu deciso comunque che i viveri ed il materiale militare, acquistati in Italia od all’estero, fossero concentrati a Genova, da dove i reparti militari sarebbero partiti. Nella città ligure fu creato un magazzino militare di transito, alle dipendenze dell’intendenza militare locale, con il compito di occuparsi dell’arrivo in città delle merci, delle donazioni fatte dai comuni cittadini e del loro imbarco. La fase invece dell’imbarco delle truppe sarebbe stata gestita da una commissione ad hoc in collaborazione con ufficiali della marina britannica.
Intanto il generale De Cavero, intendente all’armata, in marzo fu inviato a Costantinopoli assieme ad altri uf-ficiali per individuare luoghi ed edifici da trasformare in caserme, ospedali, uffici e magazzini, ed inoltre stipulare contratti con i locali per lo sbarco ed il trasporto delle merci sul suolo turco; il maggiore Morelli, dei Cavalleggeri di Saluzzo-Monferrato, aveva invece il compito di acquistare sul luogo almeno 300 cavalli per gli ufficiali.
Il 31 marzo De Cavero giunse a Costantinopoli, dove, nonostante la buona accoglienza delle autorità locali, incontrò numerose difficoltà ad ottenere quei luoghi idonei per alloggiare la spedizione. Francesi e britannici avevano occupato ormai quasi tutto. Il generale ottenne, come centro d’occupazione per magazzini ed o-spedale, solo degli spazi ed un palazzo presso il villaggio di Joni-Koi, sul Bosforo, ed ad Amassera, sulla sponda meridionale del Mar Nero, presso Sinope. Ma tutto ciò era insufficiente, quindi scrisse al Ministero della Guerra perché gli fosse inviata una buona quantità di legno da costruzione: “Tranne gli uffici, tutto il re-sto, ospedali, magazzini devono essere collocati in baracche”. Ma il legname, ed il corpo del genio che a-vrebbe dovuto allestire il campo, tardarono ad arrivare, così De Cavero fu costretto ad incaricare imprese locali, impiegate già dagli alleati, a costruire gli edifici necessari. A Jeni-Koi fu realizzato un ospedale con 500 letti, costituito da 10 baracche di 54 m. di lunghezza per 6.50 m. di larghezza ed alte 3.60 m., altre quattro baracche furono destinate a magazzino, ogni singola costruzione venne a costare 10.000 lire (oltre 30.000 euro).
Un’altra questione da affrontare era il trasporto del materiale. Infatti se la Gran Bretagna garantiva il trasferi-mento in Turchia delle truppe sui propri bastimenti, il Piemonte però doveva preoccuparsi delle merci e dei rinforzi da inviare nei mesi successivi. A tal fine il governo di Torino impiegò le navi della regia marina (Costituzione, Carlo Alberto, Authion, Tripoli e San Giovanni) inoltre affittò vapori, due dalla Società Rubattino, e legni a vela della marina mercantile italiana e britannica.
Ai primi di aprile le navi che trasportavano le merci richieste da De Cavero salparono da Genova, ma una volta giunte a Costantinopoli le derrate ed il materiale non furono sbarcate, perché non si sapeva ancora il luogo preciso dell’approdo delle truppe. Il rischio era che le merci marcissero. De Cavero decise così di affittare dei depositi presso il porto a prezzi elevatissimi. Inoltre per trainare i legni a vela in porto o per trasportare la merce eventualmente in altri luoghi furono affittati due modesti rimorchiatori per 900 sterline al mese; i francesi e britannici infatti avevano già preso tutto. Le enormi difficoltà che incontrò De Cavero furono spesso attribuite al suo netto rifiuto di ricevere la collaborazione, a Costantinopoli, dei ricchi mercanti genovesi che conoscevano i modi, più o meno leciti, di trattare con i ministri del Sultano.
Contemporaneamente si formava il corpo di spedizione. Da febbraio a marzo furono sospesi i congedi assoluti, il diritto alla pensione per anzianità e la concessione di licenze, furono richiamati quelli in licenza e si aprirono arruolamenti volontari. Il regio decreto del 31 marzo stabiliva che il corpo fosse composto da un quartiere generale principale, 2 divisioni, 1 brigata di riserva, 1 reggimento di cavalleria, 1 brigata di artiglieria da piazza con una compagnia di operai di artiglieria, 1 battaglione zappatori del genio, 1 ufficio d’intendenza, servizio di sussistenza, servizio sanitario, giustizia militare, servizio postale ecc…, con i rispettivi impiegati, militari e civili, e distaccamenti di truppa.
La spedizione si suddivideva quindi in 5 reggimenti di fanteria (20 battaglioni da quattro compagnie ciascu-no), 5 battaglioni di bersaglieri, 1 reggimento di cavalleria e 3 brigate di artiglieria da campagna (6 pezzi per ogni batteria), un distaccamento di carabinieri, uno del treno, uno di soldati infermieri ed uno di soldati operai della sussistenza. Numericamente gli uomini erano 18.058 (1.038 tra ufficiali ed impiegati e 17.020 uomini di truppa), i cavalli 3496. Il corpo di spedizione comprendeva 3.000 uomini di più di quelli previsti dalla convenzione di alleanza. La 1^ divisione era comandata dal generale Giovanni Durando (fratello del Ministro della Guerra, Giacomo Durando) e si componeva della 2^ brigata, affidata al generale Manfredo Fanti (2° reggimento fanteria, 2° battaglione bersaglieri e 7^ batteria da battaglia) e della 3^ brigata, guidata invece dal generale Enrico Cialdini (3° reggimento fanteria, 3° battaglione bersaglieri e 10^ batteria da battaglia). La 2^ divisione aveva a capo il generale Alessandro La Marmora, fondatore del corpo dei Bersaglieri e fratello maggiore del generale Alfonso La Marmora, comandante della spedizione. La 2^ divisione si divideva nella 4^ brigata comandata dal generale Rodolfo Gabrielli di Montecchio (4° reggimento fanteria, 4° battaglione bersaglieri e 13^ batteria da battaglia), e dalla 5^ brigata del generale Filiberto Mollard (5° reggimento fanteria, 5° battaglione bersaglieri, 1^ batteria da battaglia). La divisione di riserva era costituita dalla 1^ brigata del generale Giorgio Ansaldi (1° reggimento fanteria, 1° battaglione bersaglieri, 4^ batteria da battaglia e 1^ sezione della 16^ batteria). Le tre divisione erano inoltre supportate da plotoni dei cavalleggeri di Monferrato che avrebbero svolto le funzioni di guida.
Inizialmente era stato previsto per il comando della spedizione, Ferdinando di Savoia, fratello di Vittorio E-manuele II, ma il 10 febbraio 1855, il duca Ferdinando era morto dopo una lunga malattia e fu così deciso di nominare comandante Alfonso La Marmora, allora Ministro della Guerra.
Le truppe, escluse quelle dislocate sul litorale ed in Sardegna, furono concentrate prima a Torino e poi, il 14 aprile, ad Alessandria alla presenza del re. Lo stesso giorno i soldati ed il materiale furono trasportati in treno a Genova e qui furono imbarcati sulle navi.

La partenza
Nel porto di Genova erano giunte 45 navi britannici (21 a vapore e 24 a vela) destinate esclusivamente al trasporto dei soldati. Su indicazione di La Marmora, il governo del regno affittò dai britannici altre 10 navi per il trasporto dei cavalli, mentre le merci viaggiarono prevalentemente su navi, militari o mercantili, pie-montesi. I piroscafi britannici potevano navigare alla velocità di 12 nodi, ma dovendo trainare i brigantini a vela erano molto rallentati.
Tutto il corpo di spedizione fu imbarcato a Genova, tranne il battaglione della Brigata Casale, che salpò da Villafranca e quello della Brigata Savona dalla Sardegna. A Genova quindi, tra il 25 aprile ed i 2 maggio, s’imbarcò la brigata di riserva su due vapori della marina piemontese, tra il 3 e l’8 maggio, invece, la 1^ divi-sione e tra il 13 ed il 20 maggio la 2^ divisione. Intanto il 28 aprile La Marmora con il suo quartiere generale partì a bordo del regio piroscafo Governolo.
Le prime navi lasciarono Genova con la destinazione di Costantinopoli, ma quelle che salparono dopo la metà di maggio furono invece inviate verso il porto di Balaklava, in Crimea. Infatti La Marmora, appena sbarcato a Costantinopoli, fu raggiunto da un dispaccio inviato da Lord James F. Raglan, comandante britannico in Crimea, che lo avvertiva di dirottare i soldati piemontesi verso il Mar Nero a Balaklava, cittadina conquistata dagli alleati nel settembre del 1854 e teatro della famosa carica dei 600.
Lo sbarco in Crimea significava che le truppe del regno di Sardegna non avrebbero svolto una funzione di riserva, come era sembrato inizialmente, ma si sarebbero trovate sui campi di battaglia. Questo cambiamen-to certamente non preoccupò il comando sardo, ma poneva dei problemi di strategia e gerarchia tra gli alleati. Infatti, al momento di salpare da Genova, La Marmora, ricevendo il personale saluto di Cavour, chiese al Presidente del Consiglio istruzioni precise riguardo l’atteggiamento militare da tenere nei confronti degli altri comandi in Crimea. Infatti il generale non voleva passare come un subordinato ai britannici, e, nel momento di congedarsi, alla sua domanda: “Ma insomma mi vuoi dare queste benedette istruzioni?”, Cavour rispose “Ingegnati!, Fortuna a te, ai nostri soldati ed al paese”. Sulla veridicità di questo colloquio non mancano dubbi, ma i testimoni che lo riportano vollero comunque dimostrare come la spedizione non ricevette disposizioni precise, favorendo così l’atteggiamento dei comandi alleati di rilegare le truppe sarde ad un ruolo secondario nei combattimenti.
La Marmora comunque una certa preoccupazione la percepì già all’inizio del viaggio. Il 24 aprile infatti erano salpati due vapori il Nubia ed il Craesus, utilizzati per trasportare 600.000 razioni di viveri, foraggi e materiale per la costruzione di ricoveri, che dovevano precedere le truppe. L’iniziale progetto, di inviare provviste per tre mesi, era saltato per la mancanza nel regno di grandi compagnie navali per il trasporto delle merci. Quin-di si pensò di caricare il più possibile sulle navi disponibili. Sul Craesus, vapore britannico, furono imbarcate 450.000 razioni di viveri, altro materiale, oltre ad ufficiali e funzionari di truppa. Il vapore doveva inoltre trainare il legno a vela britannico Pedestrian, ma all’alba del 24, a largo di Camogli, nell’insenatura di San Fruttuoso, nel tentativo di legarsi, le due navi si urtarono provocando un incendio sul Craesus. Il vapore andò distrutto, morirono 24 soldati (7 soldati del genio e 15 della sussistenza) andarono perse merci per il valore di 1.300.000 lire (4 milioni di euro) che dovettero essere però subito sostituite. Fu quindi acquistato nuovo materiale, affittate nuove navi e si decise di distribuire la merce su più navi, provocando però così ritardi. Ogni soldato comunque aveva provviste per il viaggio e per tre giorni successivi allo sbarco, ma, in seguito ad un errata interpretazione britannica della convenzione militare, la marina imperiale fornì ai piemontesi il mangiare sulle navi, permettendo così alle truppe sarde di risparmiare i viveri per ulteriori giorni.
Per i cavalli fu acquistato ed inviato fieno per 3.000 cavalli per 45 giorni ed orzo e biada per 10 giorni.
La navigazione durò 12 giorni grazie anche al bel tempo. Solo alcune navi fecero scalo a Costantinopoli, le restanti furono inviate direttamente a Balaklava, dopo una sosta a Malta per rifornirsi. Il trasferimento delle truppe in Crimea risolveva i problemi logistici sorti a Costantinopoli, mentre gli ospedali ed i magazzini co-struiti a Joni-Koi, dove dal 22 aprile era giunto il personale medico, divennero di seconda linea.

Lo sbarco
La Marmora giunse a Balaklava assieme a sei navi di soldati nella sera dell’8 maggio. Il Governolo entrò in porto solo la mattina seguente, perché lo scalo era molto piccolo ed era già occupato da navi britanniche, sempre attraccate in quanto utilizzate come magazzini. L’enorme traffico nell’angusto porticciolo del villaggio di Balaklava fu una delle principali cause del ritardo con cui si effettuò lo sbarco di uomini e materiali piemontesi. Oltre al traffico del porto ciò che colpì i nuovi arrivati era il fetore insopportabile che esalava dalle acque ricoperte da detriti, ed in queste condizioni le navi dovettero aspettare almeno quattro giorni. Per accelerare le operazioni di sbarco e per liberare in fretta il porto, i marinai britannici scaricarono immediatamente il materiale piemontese senza tener conto delle indicazioni del comando sardo (responsabile piemontese del porto era stato nominato il tenente di vascello Vittorio La Marmora, nipote di Alfonso), ed in mancanza ancora di magazzini utilizzabili tutta questa merce fu lasciata deteriorarsi sulle banchine sotto il sole. A complicare la questione delle provviste vi fu la difficoltà di trovare navi per trasferire a Balaklava le provviste precedentemente giunte a Costantinopoli.
A Balaklava La Marmora, su indicazione britannica, scelse il luogo per l’accampamento delle sue truppe sul-le alture del Karani, delle colline appiattite a 3 Km ad ovest del villaggio, con a sud il Mar Nero. Ad est di Balaklava sorgeva Sebastopoli. Durante la giornata si potevano sentire le cannonate dell’assedio, mentre a nord scorreva nell’omonima valle il fiume Cernaia. Il Quartier Generale fu posto in 30 baracche a nord-est del porto nella località di Kadi-Koi.
A caratterizzare la zona era il fetore nauseabondo che persisteva anche oltre il porto. La causa era la con-centrazione in pochi ettari di migliaia di uomini senza che venisse rispettata alcuna norma igienica. Inoltre il caldo asfissiante rendeva insopportabile il giorno e l’umidità, le zanzare e le formiche la notte. Nei giorni ventosi all’afa si sommava la polvere fine che penetrava nei polmoni.
Le truppe intanto iniziarono lo sbarco (al 22 maggio erano sbarcati 9.000 uomini, 1250 cavalli, 150 carri). Dirigendosi verso l’accampamento passavano davanti ai campi britannici senza ricevere da questi alcun cenno di gradita accoglienza. Durante la campagna non ci fu mai tra piemontesi e britannici familiarità, eppure era stata proprio Londra ad insistere perché contingenti sardi, conosciuti per il loro valore e la loro disciplina, partecipassero a questa guerra. Diverso invece il rapporto che s’instaurò tra i francesi ed i piemontesi, anche grazie alla lingua, in quanto tutti gli ufficiali e parte della truppa sarda parlavano correttamente il francese ed il resto del corpo lo capiva benissimo; infatti sebbene da duecento anni la lingua degli atti ufficiali del Regno di Sardegna fosse l’italiano, il francese era ancora diffusissimo.

Le prime azioni
Giunto in Crimea La Marmora da subito partecipò ai quotidiani consigli di guerra con il comandante francese, generale Jean-Jacques Pélissier, il britannico Lord Raglan, veterano di Waterloo, e il comandante turco Omer Pascià. Pélissier era al comando del contingente alleato più numeroso in Crimea, circa 120.000 soldati, mentre i britannici ne avevano 20.000, ed i turchi 55.000 (13.000 contro Sebastopoli). I russi potevano disporre di 150.000 uomini di cui 90.000 nella piazzaforte: quindi il peso francese nelle decisioni strategiche era decisivo. Intanto a Parigi s’iniziava a mal sopportare la lunghezza di questo conflitto. L’imperatore Napoleone III chiedeva al suo generale un successo militare, proponendogli di spostare il conflitto nelle campagne di Sebastopoli dove la resistenza russa era inferiore. Il generale francese e quello britannico invece sapevano che la chiave del conflitto era la città, quindi pur continuando l’assedio, Pélissier accontentò l’imperatore impegnando i russi anche in altre zone.
Il 25 maggio fu dato dal comando francese un ordine d’azione alla quale era prevista la partecipazione dell’esercito sardo. L’operazione consisteva nel far retrocedere gli avamposti russi, che, posti sulle alture che dominavano il campo di Balaklava, sulla sinistra della Cernaia, permettevano di spiare i movimenti degli alleati. Inoltre l’occupazione di quelle alture avrebbe permesso di accedere liberamente ad est, alla Valle di Baidar, ricca di foraggi, verdura e frutta. Il reparto sardo sarebbe stato impiegato nella conquista del ver-sante di Kamara, che dava accesso alla Valle di Baidar, e si sarebbe inoltrato verso il villaggio di Ciorgun.
Il corpo sardo era considerato dagli alleati come un appendice di quello britannico e La Marmora come di-pendente di Raglan, infatti le comunicazioni di iniziative militari, come quella del 25 maggio, partivano dal comando francese per passare a quello britannico che poi le comunicava al piemontese. Solo in seguito al successo nella battaglia della Cernaia questa formula decadde.
Il 25 maggio i piemontesi furono impegnati per la prima volta. La spedizione di ricognizione fu divisa in tre colonne, quella di sinistra era composta dai francesi, comandata dal generale Canrobet, che all’alba scese verso la Valle della Cernaia, e giunti al ponte di Traktir lo sottrasse facilmente ai russi. Il ritiro di questi permi-se l’avanzata fino alle falde delle alture della riva destra del fiume. La seconda colonna, che si muoveva ver-so le alture di Kamara, era agli ordini di Alessandro La Marmora ed era composta da tre brigate, quella del generale Ansaldi, quella del generale Fanti e quella di riserva. Le tre brigate erano sostenute da due reggi-menti (lancieri e ussari) e da due battaglioni della cavalleria britannica. La terza colonna era composta dalla fanteria britannica, comandata dal generale Campbell, ed avanzò ad est di Balaklava; 2.550 turchi guidati da Pascià seguivano di riserva. Nonostante l’ingente schieramento di uomini non furono scambiati colpi di arma tra le due fazioni, se si esclude il leggero scontro sul ponte di Traktir. Piemontesi e britannici senza incontrare resistenza passarono il fiume Suaja per giungere agli accessi della Valle di Baidar (le gole di Baidar e Alsu). A mezzogiorno la colonna si fermò. La Marmora ripassò la Suaja e collocò le sue truppe sulle alture che, da una parte dominavano Kamara, e dall’altro l’angolo dove la Suaja incontra la Cernaia. I piemontesi avevano posto sotto controllo, sul lato destro della Cernaia, una specie di piattaforma che scendeva con una scarpata ripida e rocciosa verso il fiume. Il controllo di questa postazione permetteva di essere padroni delle due rive della Cernaia. Questo luogo fu battezzato Roccia dei Piemontesi ed era al momento il posto più avanzato controllato dagli alleati. Nelle settimane successive l’esercito sardo avrebbe occupato il ponte Zig-Zag, più avanti sulla Cernaia, in prossimità delle uniche strade (Makenzi e Sciuliù) aperte ai russi per accedere alla Valle della Cernaia.
Alla sinistra dei piemontesi a Kamara, avevano preso posto i francesi che occupavano i monti Fieduccine, alla destra i britannici controllavano le alture ad est di Balaklava, sottratte ai russi che si erano ormai ritirati alla difesa di Sebastopoli.
Le ricognizioni continuarono nei primi giorni di giugno senza però che i piemontesi incontrassero resistenza; infatti la Valle della Cernaia e del Baidar erano state lasciate dai russi.
Il primo scambio a fuoco tra piemontesi e russi ci fu il 17 giugno, quando il comando francese chiese ai re-parti piemontesi di passare la Cernaia e marciare per le due rive del fiume fino a Sciuliù, Per poter attraver-sare il fiume La Marmora dette ordine di costruire un ponte di legno e durante questi lavori si verificò un pic-colo scontro con il nemico. Il giorno successivo l’opera era completata e la 1^ divisione e la brigata di riserva, sotto il comando di Durando, passarono la Cernaia e si indirizzarono sulla strada di Woronzof, che collegava Sebastopoli a Yalta, e alle 4 del mattino arrivarono a Sciuliù. Qui i russi avevano 4 battaglioni di fanteria e più dietro potevano contare su 12.000 uomini; 20.000 russi invece controllavano il passo di Makenzi ed altrettanti erano posti al centro, sul Belbek. Nell’avvicinarsi al villaggio i piemontesi furono oggetto di colpi di cannone mentre l’artiglieria sarda si trovava dietro, perché su quell’ignoto territorio non la si voleva rischiare. I russi si erano appostati però lontano, come se volessero attirare i nemici verso l’interno, presso Kodia Sala, dove avevano preparato delle fortificazioni ed i luoghi erano sconosciuti agli alleati. Durando decise di non affondare, il compito dei piemontesi infatti era di attirare i russi allo scoperto, infatti un’eventuale scontro doveva verificarsi presso la strada di Makenzi, caratterizzata da ampi spazi per le manovre. I piemontesi quindi non procedettero e si fermarono sulla destra dello Sciuliù, a cavallo delle alture che dominano il villaggio e quello di Ciorgun. Qui giunse anche la 2^ divisione, schierandosi in seconda linea. Nei giorni successivi reparti piemontesi avanzarono più avanti nella Valle dello Sciuliù, ma i russi adottarono la stessa strategia di ritirarsi ed ammassarsi. Dopo due giorni il grosso delle truppe pie-montesi rientrò.

Il campo di Kamara
L’iniziativa del 25 maggio obbligò gli alleati a spostare più avanti i loro campi. I piemontesi da Karani decisero di accamparsi a nord del villaggio di Kamara, abbandonato dai russi, lungo la strada per Sebastopoli. I parchi cavalli, l’infermeria, l’ospedale ed i magazzini rimasero a Balaklava. Qui rimasero anche le truppe addette ai servizi speciali (genio e treno), sanità, sussistenza, la compagnia d’artiglieria ed il battaglione di artiglieria da piazza. Il Quartier Generale piemontese restò a Kadi-Koi.
Al campo di Kamara furono dettate dal comandante La Marmora le seguenti disposizioni: “[…] nessuno può avvicinarsi alla linea degli avamposti senza avere la parola d’ordine e nessuno può oltrepassarla senza essere munito di una speciale carta di passaggio. Io non mancherò [rivolgendosi a Pélissier] di farvi pervenire ogni 5 giorni la parola d’ordine, d’altra parte ogni ufficiale francese, che avrà bisogno di percorrere le nostre linee, potrà procurarsi questa parola presentandosi al nostro Quartier Generale […]”. L’adozione di queste misure si rese necessaria dopo la scoperta di spie russe che si erano introdotte nelle linee alleate indossando uniformi di ufficiali francesi e britannici. Spesso, dopo essere interrogate, queste spie erano condannate alla fucilazione da un consiglio di guerra.
A fine maggio tutte le truppe piemontesi erano sbarcate ed alloggiate a Kamara. I soldati erano ricoverati sotto comuni tende coniche, formate da un'unica tela di cotone in uso presso l’esercito sardo. Avevano come giaciglio la paglia o il fogliame secco. Le tende degli ufficiali invece erano leggermente più ampie, per tessuto e forma erano simili ai modelli francesi e britannici. Gli ufficiali ricavavano i loro letti dalle ampie casse che erano state utilizzate per il trasporto delle gallette sulle navi. Ad imitazione dei turchi, i piemontesi, per rendere il sole estivo meno ostile, costruirono capanne con rami intrecciati.
Intanto il servizio dei rifornimenti continuava a creare disagi. La distribuzione era regolare, ma i generi erano talvolta avariati e taluni di scarsa qualità. La galletta era buona, quando non era ammuffita, il riso e la pasta erano soddisfacenti, il caffè sapeva di marmitta, ma era bevuto volentieri, il vino era pessimo, ma peggio di tutto era la carne salata, che durissima non veniva toccata, sebbene ne fosse stata acquistata un’ingente quantità.
Sotto la tenda della mensa non vi erano banchi o sedie, fu invece scavato un fossato circolare dotato all’interno di naturali sedute e con la terra centrale che faceva da appoggio. I viveri erano tenuti al fresco in una grande fossa rettangolare, con le pareti rivestite con graticciate e il pavimento ricoperto con assicelle. La terra scavata veniva impiegata per costruire dei muretti tenuti su dai rami e formavano così le pareti al di sopra del suolo. Rami, graticciate formavano il tetto di queste fresche cantine.
Era fatto divieto alla truppa di uscire dal proprio campo, mentre a volte, su richiesta, era concesso agli uffi-ciali di recarsi presso i campi alleati. Durante queste visite gli ufficiali piemontesi erano soliti regalare, per non buttarla, l’odiata carne salata ai colleghi turchi, che invece l’apprezzavano. Mentre dai britannici i pie-montesi spesso ricevevano liquori e tabacco.
Intanto continuavano le difficoltà per trasportare i viveri da Costantinopoli in Crimea; La Marmora aveva promesso ai suoi che due volte la settimana avrebbero ricevuto carne e pane freschi. De Cavero infatti ave-va stipulato un contratto a Costantinopoli per la fornitura di pane fresco, ma questo spesso giungeva a Balaklava troppo tardi ed immangiabile. Fu così rescisso il contratto ed inviata in Crimea la farina per cuocere il pane nei forni da campo. Inoltre nei magazzini di Costantinopoli vi erano 1.400 buoi, 2.500 agnelli ed 800 montoni e grandi quantità di lardo, mentre a Jeni-Koi vi era riso e fieno, imbarcati sulle navi a vela che aspettavano il vento propizio.
Il porticciolo di Balaklava aveva due sbarchi, uno ad est e l’altro ad ovest; da ciascun sbarco partivano due reti di comunicazioni. Una era la ferrovia che arrivava ai magazzini, l’altra, carrabile, giungeva fino agli ac-campamenti del villaggio. La ferrovia poteva essere usata dai piemontesi solo la notte, di giorno spettava agli britannici. Di notte veniva trasportato il legname ed il foraggio, mentre di giorno con i carri venivano trasportati i viveri. I magazzini piemontesi erano a nord del villaggio a 500 metri, le ambulanze, i carri e le bestie da soma effettuavano il servizio di trasporto merci tra Balaklava e Kamara.
Solo a metà di luglio il governo sardo finalmente decise di inviare direttamente a Balaklava le navi merci, senza più sostare a Costantinopoli; inoltre furono affittate altre imbarcazioni. Così la questione delle provvi-ste sembrò risolversi. Nel settembre 1855 De Cavero divenne comandante della brigata di riserva, mentre il suo posto a Costantinopoli fu preso dall’efficiente Della Rovere.
Durante l’estate la siccità si fece sentire. Essendo le sorgenti di Kamara secche, si decise di istallare un ser-vizio di guardia per le provviste d’acqua. Di notte si attingeva l’acqua per la cucina, mentre quella per lavarsi era procurata nei torrenti più lontani. Ma il campo sorgeva a 600 metri d’altezza sul fiume.
A Balaklava e a Costantinopoli vi erano gli uffici postali dell’esercito sardo, ma il servizio del trasporto della posta avveniva tramite navi francesi; la posta subiva quindi la doppia tassazione ed impiegava oltre 20 giorni per arrivare a destinazione.

Le malattie
Nel 1854 l’Europa, in particolare la Francia ed il Nord Italia, era stata colpita dal colera. L’epidemia aveva accompagnato le truppe francesi in Bulgaria prima ed in Crimea adesso. Nei mesi precedenti gli stessi fran-cesi ed britannici erano stati colpiti pesantemente dal colera, dal tifo, dalla tisi, dalla malaria e dallo scorbuto. Con l’arrivo dei piemontesi il numero dei contagiati tornò ad aumentare. Tra i piemontesi il primo caso di colera si era presentato già durante la navigazione, quando l’11 maggio a bordo dell’Authion era morto il cappellano Astengo; altri casi si erano verificati durante lo sbarco per poi aumentare ancora. Con il trasferimento a Kamara la situazione divenne di emergenza. L’ospedale di Balaklava intanto si stava riempiendo, fu così deciso di inviare i convalescenti ed i malati trasportabili all’ospedale di Jeni-Koi. Il 29 maggio presso Kamara fu allestito un ospedale solo di colerosi.
A Balaklava le baracche e le tende potevano ospitare fino a 100 malati, ma in quel momento ve ne erano 800. Quindi fu deciso di costruire due ospedali sulla costa di Balaklava, ma che furono completati solo ad agosto quando l’emergenza fu superata. I letti da ospedali erano 700 in Crimea di cui 500 a Jeni-Koi, ma non bastavano per accogliere tutti, quindi spesso i malati erano costretti a sdraiarsi sulle stuoie in ricoveri im-provvisati. Mancavano anche i viveri adatti ai malati; il governo di Torino infatti non si era preparato per que-sta necessità, mentre molto materiale era andato perso con il Craesus. Il Comando in Crimea fu costretto quindi a rivolgersi ai francesi od ai britannici per ottenere, a volte gratuitamente, ma la maggior parte delle volte pagando, l’indispensabile occorrente contro l’epidemia. Allora si attribuiva la causa del colera, scoperta dalla scienza solo nel 1883, ai batteri nell’aria, ma non a quelli nell’acqua, che mai era bollita prima di essere bevuta. Eppure erano stati sbarcati 300 filtri per l’acqua, ma solo due furono utilizzati, presso il Quartier Generale, i restanti furono rimpatriati ancora imballati.
Al 7 giugno si contavano 869 malati di colera e 383 morti per la malattia. Il personale medico raccomandava al comando, per limitare il contagio, che la truppa faticasse poco, indossasse fasce di lana al ventre e venisse distribuito in grossa quantità vino e caffè. A coloro che erano colpiti dal morbo si somministrava acqua di riso, gocce di laudano, si spogliavano e si strofinavano con panni di lana, inoltre veniva dato loro un forte cordiale di rhum o di cognac, ma scarsa era la razione di cibo, l’opposto dei britannici che oltre a somministrare al malato molti liquidi e liquori gli permettevano anche di mangiare molto cibo.
Spesso i contagiati si rifiutavano di recarsi all’ospedale, dove sapevano che poco si poteva fare per loro; inoltre sapevano che sarebbero stati isolati, esclusi dalla truppa, quindi molti, finché poterono, nascosero la malattia, altri invece ai primi sintomi decidevano di andare a nascondersi nei boschi o nei crepacci in attesa della morte.
Il picco della malattia si toccò nella prima decina di giugno, quando circa 1.300 furono i contagiati e la metà della quale morì. Tra i caduti ci fu, il 7 giugno del 1855, anche Alessandro La Marmora; il comando della 2^ divisione passò al generale Ardingo Trotti.
Il 28 giugno morì Lord Raglan, per colera, e gli successe il generale Simpson. Il 2 luglio per colera moriva anche il generale Ansaldi. I corpi di Alfonso La Marmora ed Ansaldi furono tumulati su una collina in faccia al villaggio di Kadi-Koi.
A Kamara oltre al colera ed a varie febbri si era diffusa una oftalmia speciale detta emeralopia. I soldati affetti durante la notte cadevano in totale cecità, riacquistando la vista solo al mattino. Ne era colpita solo la truppa non gli ufficiali. La causa, allora sconosciuta, era dovuta ad una dieta priva di vitamina A e C. Gli ufficiali invece, sebbene condividessero con la truppa lo stesso rancio, potevano contare su proprie provviste o più soldi da spendere nei cari bazar di Balaklava e Kamesh (questo era un villaggio francese dotato di alberghi, caffè, ristoranti e teatro), dove un pasto completo, composto da omelette, formaggio, pane e 1/2 litro di vino veniva a costare 7 lire, contro la paga mensile di un soldato che era di 70 lire.
Lo scorbuto colpì nei primi mesi del 1856. I suoi effetti negativi furono limitati somministrando ai soldati una bevanda acida antiscorbutica a base di succo di limone, già sperimentata con successo dai britannici. Il co-mando piemontese infatti acquistò da quello britannico 34.000 litri di succo di limone.
Intanto molti dei colerosi guarivano, ma necessitavano di una lunga convalescenza e questo diminuiva la forza da impiegare. Se durante l’estate il colera e le febbri tifoide diminuirono d’intensità, le febbri leggere aumentarono, causando vuoti tra i soldati ed il personale, che dovevano essere coperti. La Marmora chiese a Torino nuovi contingenti per rispettare l’accordo militare di 15.000 soldati. Al 10 agosto la spedizione pie-montese contava 16.919 uomini di cui 14.098 disponibili.

La battaglia della Cernaia
Intanto in agosto l’attività russa si faceva più minacciosa nelle alture in prossimità degli avamposti alleati. Cosacchi a cavallo, appoggiati da reparti di fanteria, si muovevano spesso presso il villaggio di Cingun. Il comando piemontese il 13 agosto fu avvertito da quello francese, in base a informazioni di spie, di un immi-nente attacco russo, ma non avvenne niente. L’allarme fu ripetuto nei giorni successivi; si diceva che i russi avrebbero attaccato prima del 17 agosto.
Gli avamposti alleati sulla Cernaia erano costituiti dal ponte Traktir, controllato dai francesi, e dal trincera-mento sardo al di là della Cernaia, sull’altura detta Zig-Zag (oppure detta opera Cadorna, il maggiore Raffae-le Cadorna ne aveva diretto la costruzione). Queste posizioni erano inoltre supportate da batterie di grossi obici britannici, imprestati ai piemontesi, sul monte Hasafort, e da batterie di artiglieria francese sui monti Fieduccine, che potevano essere attaccate solo dal basso.
La sera del 15 agosto i campi francesi celebravano la tradizionale festa in onore di Napoleone III, e i festeg-giamenti si prolungarono nella notte. Approfittando di ciò e della nebbia, il nemico (circa 18.000 uomini) si era mosso dalle proprie postazioni scendendo in colonne fino alle strade e nelle loro adiacenze, lungo il pendio delle alture. Una colonna di cacciatori (reparti finlandesi) era giunta sui poggi che sovrastano Ciorgun e Karlawa, un’altra, guidata dal generale Read, scese verso la Cernaia, la passò, occupò il ponte Traktir e puntò verso i campi francesi, mentre altre due, guidate dal generale Liprandi, si posero alle estremità del trinceramento piemontese. Alle 4 di mattina del 16 agosto i russi dalle alture dominanti Zig-Zag aprirono il fuoco d’artiglieria; era il segnale d’attacco. I piemontesi (350 uomini comandati dal maggiore Corporandi) resistettero, con i francesi che accorsero quasi immediatamente, nonostante gli effetti dei festeggiamenti. I primi a rispondere al fuoco furono il battaglione del 16°, posizionatosi sul parapetto, e quello del 4° bersaglieri. Quest’ultimo dispose due compagnie sui fianchi del trinceramento, una all’interno della difesa ed unì la quarta al 16° nella Rocca dei Piemontesi a custodia della gola di Ciorgun. Lo scontro durò 45 minuti ed in prevalenza, per la mancanza del tempo di caricare le armi, fu un corpo a corpo con l’impiego delle baionette e perfino dei sassi del parapetto. I piemontesi dallo Zig-Zag ripiegarono in ordine; le compagnie discesero il pendio coprendosi con una linea di cacciatori e giunsero all’altopiano sottostante prendendo posizione nel secondo trinceramento (Rocca dei Piemontesi), appoggiandosi alle due compagnie presenti. Quelle del 16° si disposero sul rovescio orientale dell’altura e quelle dei bersaglieri fra il trinceramento ed il ponte Traktir. Qui i russi non attaccarono con la stessa forza, ma si diressero contro i reparti francesi, dove iniziarono scontri durissimi.
Nel frattempo sul luogo era giunta la 4^ brigata e con essa la 13^ batteria, che da uno sprone del monte Ha-sford aprì il fuoco. Furono fatti avanzare tre battaglioni (il 9°, 10° e 15°), preceduti dai battaglioni del 10° con la 4^ compagnia del 5° battaglione dei bersaglieri. Questo movimento in avanti fu fermato dall’ordine del ge-nerale francese Marris, comandante della cavalleria, posta a sinistra dei piemontesi, perché non lasciassero scoperto il fianco destro del fronte. Intanto ad appoggiare la 4^ brigata era giunta la 5^ che si dispose in se-conda linea con il battaglione del 12°, del 17° e due compagnie del 5° bersaglieri, a destra del monte Ha-sford, mentre il lato sinistro era occupato dai battaglioni 11° e 18°. Poco dietro si schierò tutta la 1^ divisione e la brigata di riserva.
Alle 7 del mattino i russi avevano oltrepassato la Cernaia e puntavano a risalire verso i campi francesi. In questa fase dello scontro fu decisivo l’impiego dell’artiglieria. Le batterie piemontesi della 13^ e 16^ colpiva-no di fianco gli accessi alle posizioni francesi, invase dai russi; mentre la 7^, posizionata sul monte Hasford batteva le batterie russe poste più in basso. In appoggio a quella sarda operavano l’artiglieria francese e tur-ca oltre alla fanteria francese che iniziò a caricare alla baionetta il nemico. Questo circondato e non riuscen-do a sfondare si arrestò ed in ordine iniziò a ritirarsi. I francesi assieme a due compagnie di bersaglieri mos-sero contro i russi, i quali passata la Cernaia avrebbero dovuto subire la carica della cavalleria francese e britannica, ma Pélissier dette ordine di non seguirli. I piemontesi con il 4° battaglione bersaglieri, il 9° ed il 10° fanteria si spinsero alla riconquista dello Zig-Zag. Qui i russi con meno uomini decisero di ripiegare. I russi avevano liberato la Valle della Cernaia, ritirandosi verso le loro originarie posizioni.
Alle 3 del pomeriggio il combattimento era terminato. Tra i piemontesi si contavano 28 morti (3 ufficiali, tra cui il generale Gabrielli di Montevecchio, e 25 soldati), 155 feriti (12 ufficiali e 143 soldati) e 2 soldati dispersi. I francesi ebbero invece 181 morti, 1224 feriti e 46 dispersi, mentre i russi, falcidiati dall’artiglieria alleata, ebbero 69 ufficiali e 2273 soldati uccisi e 31 ufficiali e 1742 soldati dispersi.
L’iniziale diffidenza britannica nei confronti dei piemontesi cadde dopo questa battaglia. La Marmora ricevet-te le congratulazioni di Vittorio Emanuele II e di Cavour, e i comandi e governi alleati non mancarono di invi-are i propri elogi al corpo di spedizione sardo.
Nei giorni successivi si ripeterono falsi allarmi di attacchi nemici, ma ormai i russi si erano stabiliti con 60.000 soldati nei dintorni di Sciuliù.

L’assedio di Sebastopoli
Dal settembre del 1854 il grosso delle azioni militari si concentrava nell’assedio che gli alleati portavano alla piazzaforte russa di Sebastopoli. La città militare si affacciava all’inizio di una insenatura naturale che pene-trava per 5 miglia fino alla foce della Cernaia.
La parte settentrionale della città era difesa da due costruzioni: il forte Costantino, che si affacciava sul porto, e una barriera di terra (Star Fort). I russi, consapevoli della supremazia della marina alleata e dell’inadeguatezza della loro flotta, vecchia e priva di qualsiasi bastimento a vapore, non avevano mai accettato uno scontro navale con il nemico. Inoltre il generale russo Todleben, comandante del genio, per tutelarsi da un eventuale attacco dal mare, aveva predisposto una serie di opere difensive dotando il lato della città che si affacciava verso il mare di 610 pezzi di artiglieria, di vario calibro e disposti su tre piani in batterie e forti. Inoltre la parte esterna della rada era stata separata da quella interna da una catena tesa tra il forte cittadino di Alessandro e quello di Costantino; mentre parte della flotta era stata fatta affondare nella rada, lungo una linea obliqua che correva dal forte Costantino a quello di Nicola, sulla costa meridionale.
La presenza di questa consistente forza di fuoco dell’artiglieria russa, costrinse i bastimenti francesi e britannici a svolgere solo un azione di blocco navale; a cui partecipò anche la marina militare piemontese, con le pirofregate Carlo Alberto e Costituzione, guidate dal comandante della divisione navale, il capitano di vascello Di Negro.
Per gli alleati quindi un attacco alla città era possibile solo da sud e via terra. Ma anche questo settore era ben difeso dai russi.
La parte meridionale di Sebastopoli, dove si sviluppava la maggior parte della città, infatti, aveva come difese i forti della Quarantena, quello di Alessandro, di Nicola e il forte Paolo. Da settembre 1854 i russi avevano iniziato e completato rapidamente i lavori per unire questi bastioni con un’unica linea di difesa, costituita da un lungo terrapieno, difeso da palizzate ed interrotto, nei punti più alti, dalle ridotte, cioè dei terrazzamenti dotati di artiglieria pesante e leggera da cui i russi potevano colpire gli alleati in avanzata. Da questo momento la guerra si combatté, tra le prime volte nella storia militare, nelle trincee.
Di notte i reparti del genio russo scavavano e fortificavano gli avamposti intorno alla città, sostenuti dal fuoco amico, in modo da contrastare da queste posizioni l’avanzamento dei francesi. Inoltre di fronte alle loro opere i russi seppellivano delle scatole piene di materiale esplosivo con all’interno, disteso, un tubo di vetro contenente una sostanza, simile allo zolfanello fulminante. Il vetro se rotto da un piede attivava lo zolfanello che provocando delle scintille innescava l’esplosione. Questo rudimentale ordigno aveva una bassa potenzialità offensiva, ma era un ottimo allarme contro gli attacchi nemici.
Inoltre ostacoli di ogni genere erano stati accumulati sull’orlo o dentro i fossati, che erano per di più dotati di cannoni e mitragliatrici. Dall’altra parte i francesi, alla luce di razzi luminosi, avanzavano attraverso la realizzazione di nuovi trinceramenti o li strappavano al nemico. Di giorno l’artiglieria pesante (i britannici e francesi impiegavano giornalmente 500 tra cannoni e mortai d’assedio) era la protagonista.
L’artiglieria britannica era solita impiegare proiettili di ferro di piccolo calibro, non superiori ai 3 chilogrammi di peso, ed a breve gittata, molto modesta rispetto a quella francese. Questa infatti utilizzava proiettili fino a 90 chilogrammi e lanciati da grande distanza. Questi proiettili potevano essere anche esplosivi, oppure contenere al loro interno ulteriori piccoli proiettili o granate, che toccando terra volavano lontano, fino ad un raggio di 500 metri, ed esplodere. L’artiglieria russa era molto valida; fu la prima, proprio in Crimea, a far de-tonare le mine elettronicamente, ed ad usare i razzi incendiari. Come i francesi impiegavano proiettili di ferro pieno da 14, 30 e 90 chilogrammi.
I combattimenti più duri, prevalentemente corpo a corpo (circa il 20% dei morti in Crimea fu provocato da ferite inferte da baionette od armi da taglio), si svolgevano invece in prossimità della torre Malakof, posta a sud est della città. Alla difesa di questa tozza bianca torre, ormai in rovina, i russi avevano disposto una rete di fortificazioni e barriere chiamate dai francesi Mamelon Vert; qui si concentrava la difesa russa.
Sebbene l’esercito russo fosse più numeroso, esso perdeva il confronto con gli alleati sul piano delle dota-zioni delle armi e della strategia militare adottata dalla fanteria. Parte dei fanti britannici erano infatti dotati di moschetti Brown Ben, un fucile a pietra focaia, calibro 735, e dal peso di 6 chili, che aveva però una gittata di fuoco non superiore ai 100 metri, ed il proiettile era una volta e mezza le dimensioni del proiettile di una attuale mitragliatrice calibro 50. Il resto della truppa combatteva invece con i fucili Enfield 1852, di produ-zione statunitense, calibro 577, che potevano colpire un bersaglio fino a 1.600 metri. I reparti francesi usa-vano i rivoluzionari fucili Minié, che permetteva alla Francia di vantare la più potente fanteria del mondo.
Durante il conflitto un proiettile su 16 raggiunse un bersaglio umano, rispetto ad uno su 459 della battaglia di Waterloo.
I russi invece impiegavano vecchi moschetti a canna corta ed a corta gittata, molti dei quali difettosi, che costringevano i fanti ad impiegare quasi il doppio del tempo per caricare il loro fucile rispetto ai britannici. Solo 6.000 fucilieri russi potevano disporre di armi paragonabili a quelle degli alleati. Inoltre i russi non erano addestrati all’uso delle armi, durante gli scontri, in particolare nelle campagne di Sebastopoli, li era ordinato di avanzare in massa, sparare tutti insieme un solo colpo, spesso senza neanche prendere la mira, e poi caricare alla baionetta.
La cavalleria, impiegata prevalentemente nella prima fase del conflitto, e nelle zone adiacenti alla Cernaia, vedeva la supremazia di quella alleata, in particolare quella britannica, armata di carabine, lance con punta di acciaio, sciabole e rivoltelle Colt. I lancieri britannici nelle azioni si muovevano rapidamente e con estremo vigore, superando spesso la cavalleria russa che, sebbene potesse contare su quasi 30.000 cavalieri, risul-tava molto lenta ed impreparata.
Tra la primavera e l’estate del 1855 a Sebastopoli si verificarono gli scontri più duri e decisivi dell’assedio.
All’alba del 17 giugno, francesi e britannici scatenarono un tremendo fuoco d’artiglieria contro tutte le opere ed in particolare contro la torre Malakof. Il cannoneggiamento durò incessantemente fino alle 3 del mattino seguente, quando i francesi avrebbero dovuto muoversi contro la torre, mentre i britannici, con 6.000 uo-mini, avrebbero attaccato il Gran Redan (il bastione difensivo alla sinistra del Malakof). Nonostante il comando alleato avesse deciso l’ora dell’attacco alle 3 della mattina, si stabilì comunque che il momento della carica alleata fosse confermata dal lancio di un razzo da una batteria britannica. Ma alle 2,40 il generale francese Mayran scambiò lo scoppio di alcuni traccianti per il segnale convenuto, anticipando così l’attacco. I francesi si mossero sulla destra, per il vallone del Carenaggio, ma i britannici e le altre colonne francesi (la divisione del generale Brunet al centro e la divisione del generale d’Autemane a sinistra) non si erano ancora dispiegate, che ricevettero l’ordine di muoversi immediatamente. I francesi sulla destra rimasero comunque a lungo scoperti e falciati dal fuoco nemico. Mayran fu ferito mortalmente, la colonna oscillò, vacillò e fu costretta al ritiro, mentre i britannici, disposti su tre colonne, stavano entrando in azione, concentrando adesso su di essi il fuoco nemico. I britannici non ebbero miglior fortuna, infatti, incapaci di proseguire, si gettarono dietro i francesi in ritirata. La colonna di sinistra si mosse contemporaneamente a quella centrale, ma meno esposta al fuoco nemico degli altri reparti, in quanto agendo in un area coperta da terrapieni, giunse fino alle opere russe, riuscì perfino ad impadronirsi temporaneamente della postazione difensiva nemica, ma la ritirata delle altre colonne, la vide subire l’assalto delle riserve russe. Anche questa colonna fu costretta a ritirarsi, mentre Brunet era colpito a morte.
In tre ore di combattimenti i francesi avevano perso 1.786 soldati e 1.765 erano rimasti feriti, i britannici ave-vano avuto 283 perdite e 1.287 feriti, i russi invece 797 morti e 3.179 feriti, ma almeno 4.000 russi erano ri-masti uccisi nei bombardamenti alleati delle ore precedenti l’attacco.
La disfatta alleata giungeva per i francesi nello stesso giorno di quella di Waterloo.
Per gli alleati comunque il successo della campagna dipendeva dalla conquista della piazzaforte. L’assedio così continuava.
Nell’agosto, quando le trincee francesi erano a non oltre 100 metri dalla torre Malakof, i russi decisero di al-lestire a nord un campo trincerato come ultima difesa qualora gli alleati fossero riusciti a sfondare a sud. I russi sapevano che il decisivo attacco alleato alla città si sarebbe verificato presto.
Il comando francese decise di attaccare l’8 settembre a mezzogiorno, per stringere i tempi ed evitare che i russi potessero ricevere rinforzi. Le preoccupazioni degli alleati provenivano da informazioni ricevute sulla capacità di fuoco dei russi. Infatti questi, dietro le prime batterie maltrattate dagli alleati, ne avevano di altre intatte e costruite appositamente per ricevere le colonne d’assalto. Quando gli alleati fossero arrivati in pros-simità dei bastioni della città o avessero sfondato, si sarebbero trovate nella zona di fuoco delle batterie di grosso calibro, posizionate dai russi a nord della rada, con reparti freschi e ben equipaggiati.
Nei due giorni precedenti l’attacco, l’artiglieria alleata colpì quindi pesantemente e senza sospensioni la piazzaforte provocando la morte o il ferimento di circa 10.000 russi. Da 200 metri di distanza il fuoco alleato era diretto sopra il Bastione Centrale, sul Mât e sulla torre di Malakof. Il cannoneggiamento durò fino alle 7 del mattino del giorno 8, quando i francesi riuscirono a posizionare le proprie trincee a circa 30 metri dalla torre.
L’attacco, ormai prossimo, avrebbe coinvolto tutto il fronte. Al 2° Corpo d’Armata francese, 4 divisioni co-mandate dal generale Bosquet, fu affidato il compito di assalire il Piccolo Redan, il ridotto di Malakof ed il tratto di cortina che li univa. I britannici avrebbero assaltato il Gran Redan, mentre il 1° Corpo d’Armata fran-cese, comandato dal generale De Salles, avrebbe condotto l’assalto dal Bastione del Mât al Bastione Cen-trale ed alla cortina intermedia.
Con le truppe di De Salles si sarebbe mossa anche la 3^ brigata sarda comandata dal generale Cialdini. La Marmora aveva insistito che le sue truppe non fossero escluse dall’attacco, e fu deciso di impiegare una sola brigata per evitare di lasciare scoperti gli avamposti alleati, dove le truppe sarde erano maggiormente impiegate. Per non fare parzialità si era estratta a sorte la brigata tra le tre che non avevano partecipato alla battaglia della Cernaia. La brigata Cialdini era composta dal 3° reggimento provvisorio (battaglioni 7°, 8°, 13° e 14° fanteria e del 3° battaglione bersaglieri, integrati da 100 uomini presi dagli altri quattro battaglioni bersaglieri - 25 da ciascuno -). I soldati di Cialdini partirono dal campo di Kamara la sera del 7 settembre e passarono la nottata presso il campo francese. La mattina dell’8 alle ore 11 il battaglione, preceduto dalla 1^ compagnia zappatori del genio, si avviò alle trincee, prendendo posizione alla sinistra della colonna d’assalto di De Salles. Questa doveva però intervenire solo dopo che il Bastione Centrale fosse stato conquistato dai francesi. Poi la brigata piemontese avrebbe dovuto sostenere gli assalti all’interno della città.
Dalle 10 alle 12 gli alleati continuarono il bombardamento delle città, mentre contemporaneamente le truppe d’assalto si schieravano nelle trincee. A causa dell’affollamento delle linee alleate di soldati e materiali, lo schieramento dei reparti per l’attacco fu complicato, i piemontesi per esempio seppur giunti presto sul luogo delle operazioni, solo alle ore 14 poterono disporsi. A mezzogiorno le truppe francesi del 2° Corpo d’Armata (circa 6.000 uomini) avanzarono, le truppe britannici e quelle francesi del 1° Corpo, attesero il segnale. Al momento stabilito la 1^ divisione del 2° Corpo d’Armata, guidata dal generale Mac-Mahon, uscì dalle trincee e si lanciò su quelle di Malakof, preceduta da drappelli con rampe, ponti e scale per superare fossi e salire parapetti. Un reggimento di zuavi e due reggimenti di fanteria varcarono il primo fosso, salirono sui parapetti della ridotta e si dettero al combattimento corpo a corpo. I difensori non ebbero il tempo di organizzarsi di fronte al ripetuto ed impetuoso assalto. Dopo venti minuti il terrapieno era in mano ai francesi e la bandiera del 20° fanteria sventolava sulla ridotta. Dall’interno della torre 60 russi resistevano ancora, minacciando di far scoppiare la difesa che, come ogni barriera della piazzaforte, era stata minata. Su questo punto il combattimento continuò delle ore, costringendo i francesi ad impiegare anche la divisione della Guardia fino allora tenuta in riserva. I russi furono stanati dal Malakof con il fumo ed il fuoco appiccato ai gabbioni; la caduta di questo bastione, adesso occupato da due divisioni britannici, rendeva indifendibile la parte meridionale della città.
Contemporaneamente la 2^ divisione del 2° Corpo d’Armata, del generale La Motterouge si era lanciata con-tro la cortina tra il ridotto Malakof ed il bastione del Piccolo Redan, l’aveva superata ed era penetrata all’interno della città. La 3^ divisione del 2° Corpo d’Armata, comandata dal generale Dulac, era stata respin-ta nell’assalto al Piccolo Redan per due volte, accolta da un vivissimo fuoco di mitraglia e di moschetti. Nel ripiegare si era unito alla divisione di La Motterouge che resisteva sulla cortina. I britannici, guidati dal gene-rale Codrington, avevano circondato il Gran Redan ed erano scesi nel fosso, avevano scalato i parapetti ed occupato il Bastione. Qui però furono assaliti da riserve numerosissime e mitragliati da cannoni di piccolo calibro, fino ad allora rimasti nascosti o trasportati sul luogo rapidamente, i britannici dopo un’ora furono costretti a ritirarsi con gravissime perdite. De Salles si mosse con ritardo, perché non aveva avvertito il segnale, indebolendo così l’assalto della divisione Lavaillant che era stata respinta sul Bastione Centrale. Senza il controllo francese di questo bastione la brigata di Cialdini e la divisione francese del generale D’Autemarre, anch’essa del I° corpo, non potevano intervenire nell’assalto. Alle ore 17 i francesi controllavano solo la ridotta di Malakof. Ma inaspettatamente il comando russo, comunque consapevole che la perdita di Malakof rendeva inutile qualsiasi difesa ad oltranza, diede ordine di ritirarsi dalla città. I russi abbandonarono Sebastopoli percorrendo il ponte di zattere lungo 900 metri, realizzato nella rada tra il forte Michele e quello di Niccolò, mentre il genio faceva esplodere le fortificazioni ed il porto; solo 15 edifici su 15.000 presenti in città rimasero indenni. Ormai con la notte in arrivo, Pélissier dette ordine di non inseguire il nemico; Sebastopoli era caduta.
La brigata Cialdini rimase fino alle 18 e mezzo nella sua postazione, quando ricevette l’ordine di ritirarsi. Du-rante le operazioni per raggiungere ed evacuare la trincea dell’assedio i piemontesi però registrarono la per-dita di 4 uomini ed il ferimento di 32. I francesi ebbero 1634 morti, 1410 dispersi e 4513 feriti, i britannici 2447 tra feriti e morti ed i russi 2972 morti, 8066 feriti e1875 tra dispersi e prigionieri.
Nelle settimane successive i comandanti dell’armata alleata inviarono a La Marmora due cannoni da campa-gna di bronzo sottratti ai russi nell’assedio decisivo di Sebastopoli, come segno di stima e fratellanza. I due cannoni furono inviati in Piemonte con il regio piroscafo Governolo.

L’inverno
L’attacco decisivo degli alleati contro Sebastopoli dell’8 settembre, aveva liberato la città dai russi costrin-gendoli a ritirarsi nelle campagne, minacciando però ancora gli avamposti alleati.
Mentre a Sebastopoli restavano solo due divisioni francesi ed una britannica, oltre ad una grande batteria di artiglieria sul lato sud della rada, il resto dei reparti fu trasferito sul fronte della Cernaia fino alla Valle del Beidar. La morte in primavera di Nicola I, la successione a zar di Alessandro II, meno affascinato del padre dalla politica di potenza, e la caduta di Sebastopoli, modificarono lo scenario della guerra, la sua conclusio-ne sembrava avvicinarsi.
Infatti l’autunno fu tranquillo dal punto di vista militare. I reparti piemontesi da soli o con i francesi svolsero esclusivamente operazioni di perlustrazione. Il nemico adesso per i piemontesi era il freddo e la fatica della vita del campo. Nell’estate del 1855, La Marmora, sapendo che avrebbe dovuto passare l’inverno in Crimea, aveva chiesto a Torino l’invio di speciali tende e nuovo materiale per le baracche. Nel rapporto al Ministero della Guerra il generale chiedeva 200 tende, almeno per gli ospedali ed uffici. Ma quelle leggere della truppa erano inutilizzabili per l’inverno, dovevano essere sostituite, ma ne occorrevano 1.800. Il comandante auspi-cò che questo materiale giungesse a Balaklava entro la metà di settembre, ma viste le solite difficoltà nel trasporto delle merci, si decise di formare una commissione che studiasse i modi per migliorare le condi-zioni della vita da campo. Questa commissione approvò la costruzione per l’inverno di capanne (gourby) con la forma di un parallelepipedo, lunghe 4,30 metri e larghe 2,20, profonde nel terreno 80 centimetri e alte dal suolo 1 metro e 30 centrimetri. Il tetto sarebbe stato di graticci, spalmato con uno strato di malta (fatta di pietre e terra) dallo spessore di 50 centrimetri, il tutto ricoperto da uno strato di 10 centimetri di terra. La struttura fu realizzata senza l’utilizzo di chiodi od altre ferramenta. Le capanne potevano ospitare sei persone, furono dotate di mobilia, si crearono sedie, tavoli e portabiti, mentre massi e pietre scavate facevano da sedute, da lavabi e da cucina. Tra le capanne furono realizzate piazzole coperte con panchine. Alla fine di settembre le strutture per l’inverno erano terminate.
Intanto i britannici proposero al comando piemontese di costruire il tratto di ferrovia da Balaklava al campo di Kamara, per facilitare il trasporto di viveri e materiale al campo piemontese. La Marmora accettò ed il 20 settembre si dette iniziò i lavori per la realizzazione dei 12 km di ferrovia che dividevano i due villaggi, sotto la direzione di Cadorna. A novembre furono realizzati due km di binari, ma i lavori si dovettero fermare qui perché i macchinari britannici per la posa dei binari, fatti apposta giungere in Crimea, non potevano essere utilizzati oltre certe pendenze che invece caratterizzavano le alture intorno a Balaklava. Inoltre le locomotive britannici non funzionavano, i vagoni potevano essere trainati solo dai cavalli, i quali subirono numerosi inci-denti in tali operazioni. Si decise quindi di costruire delle baracche-magazzino alla fine del tratto della ferro-via che presero il nome di stazione Moncalieri.
Tra ottobre e dicembre le azioni militari si ridussero, i soldati avevano meno impegni, quindi non mancò chi si dette alla cacciagione, oppure a dipingere, scolpire, scrivere versi; all’inizio del 1856 si creò perfino un circolo musicale. Ma le condizioni atmosferiche si facevano più pesanti. A novembre un uragano spazzò via tende e baracche del campo Kamara, inoltre insistenti nevicate si alternarono alla pioggia, accompagnando i belligeranti fino a marzo.
Il 18 dicembre La Marmora ricevette l’ordine del re di recarsi a Torino e poi a Parigi, qui infatti dal 25 feb-braio si erano avviati i negoziati di pace, ai quali partecipava anche Cavour alla pari delle altre potenze. Nelle giornate conclusive il Primo Ministro piemontese illustrò ai rappresentanti internazionali l’annosa questione italiana.
La guerra sembrava ormai volgersi favorevolmente per gli alleati. Il comando piemontese fu assunto così temporaneamente da Durando.
Il 19 dicembre a Kamara furono registrati –18 gradi, mentre presso gli avamposti di Zig-Zag – 21. Nelle ca-panne i soldati sopportavano il freddo, ma le sentinelle negli avamposti soffrivano. Con ritardo il 3 gennaio furono consegnati farsetti a maglia e calze di lana e 200 paia di guanti di feltro rimasti a lungo a Costantino-poli. Dietro pagamento il comando francese cedette 33 paletôt foderati di pelle di montone e destinati alle sentinelle.
Con febbraio le condizioni meteo migliorarono, ma giunse il fango che impediva i movimenti alle truppe. Inoltre l’inverno aveva causato numerosi malati alle vie respiratorie con l’aggiunta di malati di scorbuto, circa 1.900 ammalati dovettero ricorrere alle cure degli ospedali in Crimea e di Jeni-Koi.

La pace
Le settimane passavano e si iniziava a diffondere la voce che i russi stavano per cedere. Queste voci trova-rono conferma il 14 marzo quando fu annunciata la firma dell’armistizio valevole fino al 31 marzo. In questo periodo nacque una certa fratellanza tra i nemici. Gli ufficiali francesi furono ospitati da quelli russi e vicever-sa. Invece permase la diffidenza nei confronti dei russi, ritenuti i responsabili della guerra, da parte dei bri-tannici e dei turchi.
La guerra sembrava davvero conclusa, tanto che francesi e britannici si preparavano ad imbarcare il loro materiale. Il 16 marzo La Marmora rientrò in Crimea e dette anche lui ordine di imbarcare il materiale dei parchi di Balaklava. Fece inoltre sistemare il cimitero piemontese di Joni-Koi, che ospitava, tra gli altri, le tombe dei generali La Marmora, Ansaldi e Gabrielli di Montecchio, chiedendo che i reparti britannici e le au-torità turche ne tutelassero la sacralità.
Il 22 marzo dalle rovine del piccolo castello genovese che dominava il porto di Balaklava fu staccata come ricordo una pietra da consegnare al municipio di Genova.
La pace fu firmata in aprile. Fu deciso di riconoscere lo status quo ante nella regione, che il Mar Nero fosse smilitarizzato e che fosse garantita la libera navigazione del Danubio. La guerra era finita.
Il materiale della spedizione, quello che non poteva essere trasportato, in parte fu venduto o regalato, men-tre il resto fu imbarcato. L’imbarco del materiale prima e delle truppe poi fu molto rallentato dalle simili ope-razioni francesi e britanniche, dal porto piccolo e dalla solita mancanza di navi. Fu quindi deciso di far partire le navi anche dal porto di Kamesh che era sotto l’amministrazione britannica. Le prime navi con i soldati partirono il 15 aprile e dopo 5 giorni di navigazione raggiunsero La Spezia, qui era stato allestito un campo di quarantena per 8.000 soldati. La spedizione rientrò completamente alla fine di maggio. Durante la loro navigazione le navi sostarono per rifornirsi presso Malta, Cagliari o Livorno. Fu così volutamente evitato di accedere ai porti del Regno delle Due Sicilie. I Borboni infatti non gradivano nei loro approdi la presenza di navi piemontesi che potevano favorire l’insorgere di manifestazioni unitarie ed antiborboniche.
Il 19 maggio il Comando piemontese s’imbarcò. Dopo una sosta a Costantinopoli, La Marmora il 29 maggio giunse a La Spezia, dove fu accolto dalla popolazione locale in festa. Attese di scendere a terra il giorno successivo, per sottoporsi alla visita della commissione medica, infatti una settimana dopo i primi sbarchi era stato deciso di annullare la quarantena per i reduci. Sempre il 30 maggio il generale si recò a Genova as-sieme agli ufficiali ed alla truppa. Qui l’accoglienza fu ancor più clamorosa e calorosa.
Il 15 giugno tutto il corpo di spedizione fu fatto riunire a Torino per la restituzione della bandiera e la distribu-zione delle medaglie; il tutto alla presenza del re e dei ministri francese, britannico e turco presso il regno di Sardegna. Il 20 giugno 1856 il corpo fu sciolto.
La spedizione aveva registrato 2.278 morti per colera, 1.340 per tifo, 452 per malattie comuni, 350 per scor-buto, 52 per incidenti, 38 per febbri tifoide, 3 per suicidio e 32 in battaglia. Il numero dei caduti al di fuori delle battaglie era stato incredibilmente alto, il Regno di Sardegna aveva pagato a caro prezzo, ma non invano la partecipazione alla guerra in Crimea. Infatti i contatti diplomatici che Cavour ebbe a Parigi nel 1856, furono i primi passi verso l’appoggio della Francia e la neutralità della Gran Bretagna nel 1859, anno in cui si avviarono con successo le campagne militari per l’unificazione dell’Italia.

Roberto Di Ferdinando

Bibliografia orientativa
Bibliografia a carattere generale:
R. Albrecht-Carriè, Storia Diplomatica d’Europa (1815-1968), Laterza, Roma-Milano, 1978, Vol. I.
E. Di Nolfo, L’Italia e l’Europa durante la seconda restaurazione, il Piemonte cavouriano, la guerra di Crimea, Rizzoli, Milano, 1965.
R.B. Edgerton, Gloria o morte, Il Saggiatore, Milano, 2001.

Bibliografia a carattere specifico:
G.F. Ceresa di Bonvillaret, Diario della campagna di Crimea, tolto dal taccuino di un sottotenente del 2° reg-gimento di guerra dal 1° aprile 1855 al 16 giugno 1856, L.Roux, Roma-Torino, 1894.
P.G. Jaeger, Le mura di Sebastopoli: gli italiani in Crimea 1855-56, Mondadori, Milano, 1991.
C. Manfredi (a cura), La spedizione sarda in Crimea nel 1855-56, narrazione di Cristoforo Manfredi, completata con la scorta dei documenti esistenti nell’archivio del Corpo di Stato Maggiore edito nell’anno 1896., Tipografia Regionale, Roma, 1956.
C. Rubiola, L’armata sarda in Crimea, notizie sanitarie e teraupetiche corredate di documenti inediti, Pacini-Mariotti, Pisa 1969.
C. Woodham-Smith, La carica dei 600 – Balaklava, Rizzoli, Milano, 1981.

lunedì 25 luglio 2011

La guerra non dichiarata tra Israele e Iran

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Israele e Iran com’è ben noto non si possono vedere, e se non fosse per la diplomazia e le nefaste conseguenze si sarebbero già fronteggiati militarmente. Anche se una guerra non dichiarata tra i due paesi , a colpi di attentati ed omicidi mirati, è già in atto da alcuni anni. La settimana scorsa il governo iraniano ha denunciato l’uccisione di Daryoush Rezaei, docente universitario ed esperto dell’organizzazione Atomica iraniana (Iao), che lavorava al progetto nucleare (militare?) iraniano. Il professore è stato ucciso, freddato da alcuni colpi di arma da fuoco sparati da due persone in moto, che lo hanno aspettato mentre usciva di casa. Una tecnica già usata nell’uccisione di un altro scienziato nucleare, Majid Shariari, a Teharan nel novembre scorso, ed ancora nel gennaio 2010, allora fu assassinato Massud Ali-Mohammadi, docente di fisica ed uno di responsabili del programma nucleare iraniano; in quell’occasione fu una moto bomba ad esplodere ed uccidere lo scienziato. Il governo iraniano sta attribuendo la responsabilità di queste uccisioni al Mossad, il servizio segreto israeliano. In effetti spesso gli 007 israeliani per colpire personalità ritenute pericolose per la sicurezza di Israele, in barba a qualsiasi norma di diritto internazionale, operano in territori stranieri e nemici con unità operative e para-militari costituite da due o tre persone, motorizzate, alle volte collaboratori reclutati in loco; non a caso negli ultimi mesi l’Iran ha arrestato numerose spie. Ma Teharan non si sta muovendo solo con il controspionaggio, il 17 luglio scorso il console israeliano ad Istanbul è scampato ad un attentato (in questo caso è stato utilizzata una bicicletta carica di esplosivo), gli investigatori turchi pensano che sia stata opera dei servizi segreti iraniani che si sono avvalsi della collaborazione sul campo di agenti siriani e libanesi, scopo dell’operazione colpire Isarele e vendicare gli attacchi agli scienziati iraniani di questi mesi.
RDF

domenica 24 luglio 2011

La figura di Ferdinando Martini politico ed umanista in Asmara (1897 - 1907)

Percorrendo le strade di Firenze, si trovano molto spesso riferimenti a personaggi che sono entrati a pieno titolo nella storia del nostro paese. Uno di questi è indubbiamente Ferdinando Martini, a cui il comune di Firenze ha dedicato una strada nel quartiere di Campo di Marte.
Nato a Firenze nel 1841, eletto deputato nel parlamento nazionale nelle file della sinistra e politicamente vicino a Zanardelli, futuro capo del governo, il Martini, nel corso della sua carriera, ricoprì numerosi incarichi pubblici, passando da ministro dell’istruzione (1892) a ministro delle colonie (1915-1919), con l’importante intermezzo della missione in Eritrea. Personaggio poliedrico e dotato di grande cultura, fu anche commediografo, letterato e giornalista. Morì a Monsummano (Pistoia) nel 1928 dopo una carriera politica contrassegnata da alcuni importanti successi, ma anche da polemiche sul tema dominante a quel tempo, ovvero la presenza italiana in Africa. Inizialmente contrario all’avventura coloniale, finì progressivamente per accettare la presenza del nostro Paese nel continente nero, fino a coronare la sua personale parabola con un successo diplomatico ed il rafforzamento della colonia.
Tralasciando gli aspetti più spiccatamente letterari che contraddistinsero la sua figura, si vuole ricordare qui il contributo che seppe dare alla politica estera italiana, in coincidenza con la sua nomina, da parte del governo Di Rudinì, a Governatore dell’ Eritrea, la colonia “primogenita”.

Con la sconfitta dell’Amba Aradam prima (dicembre 1895) e di Adua poi (marzo 1896), il governo italiano, presieduto dal deputato siciliano Francesco Crispi, si trovò nell’occhio del ciclone per le mal pianificate e superficiali azioni di guerra condotte contro i tigrini e fu costretto alle dimissioni. Il suo successore, Di Rudinì, decise di “normalizzare” la situazione politica in Etiopia, consolidare la posizione italiana in Eritrea e spengere temporaneamente i riflettori sulla nostra avventura africana, caratterizzata da non poche ombre e contrassegnata da una condotta militare che aveva suscitato continue polemiche fra gli schieramenti politici.
Questo obiettivo doveva essere perseguito attraverso alcuni passaggi cruciali: sostituzione del Generale Baratieri con il Generale Baldissera, nomina di un Governatore Generale in Eritrea con passaggio dei poteri da un’amministrazione militare ad un’amministrazione civile, normalizzazione dei rapporti con l’Etiopia di Menelik, consolidamento e sviluppo delle attività italiane nella colonia “primogenita”. Il tutto doveva avvenire chiudendo al più presto le polemiche suscitate dalla disastrosa sconfitta di Adua, la prima in assoluto di un esercito europeo nei confronti di un popolo di colore, ritenuto inferiore .
La sconfitta italiana ad Adua, nonostante il clamore che suscitò negli ambienti politici e militari, ad una più attenta analisi, poteva almeno essere minimizzata o addirittura evitata, ma avrebbe certamente richiesto un tributo di sangue elevato se si considerava che la struttura sociale e militare etiope aveva un retaggio di circa tremila anni e che tutti gli uomini di Menelik erano abituati alla guerra. Ed invece, come messo in luce anche dalla commissione di inchiesta nominata da Roma, la sottovalutazione del nemico era stata totale, la mancanza di informazioni sul territorio pure. L’opinione prevalente nelle gerarchie militari rispetto agli uomini del Negus era quella che li identificava in un pugno di uomini male armati e scarsamente preparati. L’Etiopia era l’espressione di una civiltà contraddistinta da regole e precetti precisi, quasi unica nel panorama africano del tempo, la cui nascita si legava alla leggenda di re Salomone e della regina di Saba e che ancora oggi rappresenta un efficace caso di affermazione di uno stato moderno nel cuore dell’Africa continentale. La sconfitta italiana, secondo una storiografia ormai consolidata, avrebbe peraltro rappresentato il preludio al processo di decolonizzazione che sarebbe iniziato da allora e chiuso entro pochi decenni. A conferma dell’eccessiva sottovalutazione condotta da altre potenze europee nelle loro guerre coloniali, si cita anche la successiva sconfitta dell’esercito russo contro i giapponesi (guerra russo-giapponese, 1904-1905) che suscitò ancora più grande scalpore.

Ferdinando Martini venne dunque nominato dal nuovo governo Di Rudinì nell’incarico di Commissario Straordinario dell’Eritrea, fino a divenirne, in un secondo momento, Governatore Generale. Il suo incarico ebbe una lunga durata, dal 1897 al marzo 1907. Il più importante storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, traccia di Martini il seguente profilo: “Conclusa l’annosa e sanguinosa vertenza con l’Etiopia di Menelik, e instaurato in Eritrea un governo civile, presieduto da un personaggio di alto livello come Ferdinando Martini, letterato, filologo, politico accorto, futuro ministro delle Colonie, l’Eritrea entrava in un periodo di pace che favoriva i viaggi e consentiva di tracciare della colonia i primi bilanci di valore scientifico” .

Effettivamente, sotto l’impulso del Re e di Sonnino, futuro capo del governo durante gli anni del giolittismo e ministro degli esteri italiano che legherà il suo nome al cruciale Patto di Londra (aprile 1915), gli obiettivi che erano stati indicati al Martini erano pochi ma precisi: innanzi tutto occorreva far cessare le polemiche sulle spese che l’amministrazione della colonia comportava e giustificarne l’esistenza, proprio alla luce del peso che questa esercitava sul bilancio statale. Occorreva trovare la giusta misura che coniugasse le ambizioni dei nazionalisti, protese verso le conquiste coloniali, e dei ministri del Tesoro che dovevano fare i conti con bilanci espressione di un economica nazionale ancora in fase di decollo e priva di grandi risorse, e di quella parte dell’opinione pubblica, sostenuta dai rispettivi rappresentanti parlamentari, che riteneva inutile la presenza italiana in Africa. Fra questi si trovavano sia coloro che contestavano il colonialismo italiano per motivi politici, sia quelli che valutavano i vantaggi che queste imprese potevano comportare e fino ad allora, di vantaggi ve n’erano stati ben pochi.
In verità, le polemiche sulle spese pubbliche per l’amministrazione della colonia erano ricorrenti; esse erano dovute non solo alla dialettica in seno al parlamento fra maggioranza ed opposizione, ma anche alle diverse correnti di pensiero che vi trovavano espressione e che erano trasversali agli opposti schieramenti. Da un lato, infatti, la posizione di coloro che avevano ereditato le posizioni della Destra Storica ma anche alcuni esponenti della Sinistra esprimeva l’inutilità di una presenza italiana in una zona povera, priva di risorse naturali, di fatto già circondata dalle altre potenze; dall’altro, si riteneva impossibile per l’Italia non partecipare all’ultima corsa per la spartizione dell’Africa dal momento che, senza colonie, non sarebbe mai stato possibile, per l’Italia, sedersi al tavolo delle potenze. La politica di potenza era sempre in primo piano e le colonie erano un importante strumento per la sua affermazione. Ma le polemiche venivano purtroppo alimentate dalle sconfitte, seppur sporadiche ma pur sempre significative, subite dal nostro esercito, nonostante il livello di preparazione militare e di armamenti ritenuto di gran lunga superiore a quello degli indigeni. Queste facevano inevitabilmente spostare l’attenzione sulle colonie, rinfocolando il dibattito sull’opportunità o meno di una nostra presenza e rendendo così più difficile il compito dei funzionari e degli amministratori in loco.
La sconfitta di Adua, per le dimensioni e per le modalità con le quali era maturata, rappresentò l’evento fondamentale che mise per la prima volta in seria discussione la nostra presenza in Africa.
In questo difficile contesto, Martini si trovò spesso in polemica con Roma, a causa degli scarni finanziamenti ricevuti e inidonei per portare avanti il programma di sviluppo interno che si era prefissato. La ferrovia che doveva collegare Massaua ad Asmara era uno dei suoi punti prioritari. Spesso lamentava lo scarso appoggio che riceveva da Roma ed anche la poca lungimiranza dei parlamentari; fra i suoi sostenitori, importante fu la posizione assunta dal Sonnino, secondo il quale non si doveva indietreggiare dai territori acquisiti in Eritrea ed era assolutamente indispensabile rimanere “aggrappati” alla colonia, in attesa di sviluppi politici migliori.
Il deputato di Monsummano seppe comunque riorganizzare la struttura amministrativa della colonia, svilupparne i commerci , profondersi in iniziative di pace con l’Etiopia, raggiungerla, e contare su un periodo di relativa calma in una colonia che aveva vissuto ben altre turbolenze. Certamente questo periodo di tranquillità fu reso possibile da una serie di avvenimenti nazionali ed internazionali che aiutarono non poco il governatore; si pensi ad esempio allo spegnersi del dibattito politico sull’utilità delle colonie e dal lungo lavorìo diplomatico condotto dai governi italiani che portarono al riavvicinamento con la Francia e la Gran Bretagna, iniziato dall’abile diplomatico Emilio Visconti Venosta e sancito dagli accordi siglati in gran segreto da Prinetti, nel 1903, nonostante la presenza dell’ormai ingombrante Triplice Alleanza.

Dopo il primo anno dalla nomina, passato a chiudere le emergenze e a fare il punto sulle attività economiche ed amministrative della colonia, il Martini comprese che poco o nulla si era fatto, fino ad allora. Nulla almeno che potesse avere una ricaduta economica significativa e tale da diminuire il peso delle risorse pubbliche da destinare allo sviluppo di Asmara. Gli sprechi e le ruberie condotte anche dal personale militare erano frequenti e soprattutto inutili apparivano gli innumerevoli approvvigionamenti ad uso militare stoccati nei depositi . Ma anche il malcostume che accompagnava la vita militare cadde sotto l’occhio critico del Martini. Per riorganizzare la vita nella colonia e favorirne lo sviluppo morale e civile, occorreva infatti che vi regnassero “ordine, disciplina, giustizia, economia” .
Seguendo questi precetti, Martini varò una serie di decreti che riorganizzavano i compiti e le competenze dei funzionari dello stato, puntando ad una netta separazione fra i compiti militari e quelli civili. Le attribuzioni al personale civile assumevano sempre maggiore importanza, fino a porre sotto la responsabilità del Governatore l’operato dell’esercito. In base al nuovo ordinamento, il Governatore civile dipendeva dal ministero degli Esteri; aveva alle sue dipendenze il comandante delle truppe e quello della stazione navale del Mar Rosso, formulava un bilancio annuale che veniva sottoposto al Parlamento. L’Eritrea venne divisa in province rette da commissari civili; venne infine varata una prima pianta organica di tutta l’amministrazione della colonia.
Questi decreti contribuirono a ridare maggiori certezze sui compiti da affidare ai funzionari, crearono una effettiva separazione di responsabilità, posero le basi per una diminuzione significativa delle spese di amministrazione della colonia. Tuttavia, per poter passare al secondo punto, quello più ambizioso, di sviluppare l’economia e rendere Asmara in qualche modo un po’ più indipendente dalle risorse nazionali, occorreva contare su degli stanziamenti più rilevanti, rispetto a quanto destinato da Roma. Per questa ragione, Martini non riuscì nell’intento di completare la ferrovia da Massaua ad Asmara. Ma mentre sulla ferrovia dovette riscontrare un parziale insuccesso, sulla questione dei confini, la determinazione dell’uomo di Monsummano ebbe la meglio sulle incertezze romane. Fedele alla sua politica di buon vicinato con Menelik, affermò in più occasioni che l’Italia non doveva espandere la propria presenza nella regione, ma non doveva neppure retrocedere dalle zone in cui era arrivata. Per Martini il confine “doveva rimanere sul Mareb” e sul Mareb vi rimase, vincendo le perplessità di Roma, dell’incaricato Ciccodicola presso Addis Abeba e di Menelik.
Peraltro, i rapporti con il negus etiope furono connotati dal rispetto, guadagnato da Martini proprio in occasione di alcuni importanti eventi che avrebbero contrassegnato il futuro dell’Etiopia. Questi eventi furono il tentativo di ribellione di ras Mangascià e la morte di ras Maconnen, il più fidato fra gli uomini del negus. In questa situazione, Martini avrebbe potuto benissimo allearsi con Mangascià nel tentativo di espandere l’influenza italiana sull’altopiano e rifarsi dell’onta di Adua e mettere sotto pressione Menelik, minacciato da uno dei ras più potenti. Invece Martini, seguendo la sua politica di buon vicinato e di non espansione, mantenne una posizione neutrale durante la ribellione di Mangascià e si guadagnò così il rispetto dell’Imperatore. La sua correttezza venne scalfita dall’azione diplomatica condotta da Roma, proprio alla vigilia del suo viaggio ad Addis Abeba per incontrare Menelik. Infatti, dopo la morte di Maconnen ed in previsione delle lotte di successione che si sarebbero aperte, le tre potenze europee con mire in Etiopia, Italia, Francia e Gran Bretagna, si ritrovarono a Londra per concordare l’eventuale spartizione dell’Etiopia in zone di influenza, contando sull’indebolimento politico e fisico del leader abissino (1906).
La notizia della morte di Maconnen e quella del patto siglato fra le potenze misero Martini in una difficile posizione, proprio quando l’ingresso al “Gran Ghebì” si prospettava carico di onori. Ciò nonostante, il governatore riuscì ad ottenere alcuni importanti accordi commerciali, ed a coronare la visita con un indubbio successo personale.
In definitiva, l’operato di Ferdinando Martini in Africa Orientale venne coronato da successo, dopo un passato coloniale di disavventure politiche e mala amministrazione. Questa opinione, seppure mitigata da critiche rivolte ad alcuni aspetti della personalità dell’uomo, come un eccessiva vanità e da considerazioni non certo benevole che emergono dai diari lasciati sugli abissini e su Menelik, è espressa dalla storiografia più importante del colonialismo italiano e pone soprattutto l’accento sui risultati politici ottenuti dal Martini in dieci anni di governatorato.
Senza dubbio, la presenza di un personaggio dotato di riconosciute qualità culturali e da un ottimo spirito di osservazione al vertice della struttura burocratica, contribuì a valorizzare il significato politico e sociale di un possedimento che, secondo i detrattori del tempo altro non era che “uno scoglio nel deserto” ma che invece, per molti italiani, rappresentò e continuò a rappresentare per lungo tempo un luogo di speranza e di affermazione sociale, a lungo sognata in patria. Per Martini intanto, una volta rientrato in Italia, si aprivano le porte del Ministero delle Colonie.

Francesco Della Lunga (l'articolo è stato pubblicato sulla rivista Microstoria, numero 38 del 2004)

sabato 23 luglio 2011

Prima Guerra Mondiale: fu una guerra inevitabile (?)

di Roberto Di Ferdinando

Nel Trattato di pace di Versailles del 1919 le potenze vincitrici inserirono l’articolo 231, nel quale si stabiliva che la Germania ed i suoi alleati erano i responsabili dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. La Germania sconfitta fu così costretta a riconoscere e ad accettare tale verdetto, oltre che un duro trattato di pace. Eppure nel luglio del 1914 fu l’Austria-Ungheria ad aggredire la Serbia, in seguito all'uccisione a Sarajevo dell'Arciduca, ed a dare il via al conflitto, anche se Berlino da subito appoggiò militarmente Vienna, in base all’automatismo d’intervento previsto dalla loro alleanza siglata nel 1879 e ribadita nel 1882. Ma i fatti di Sarajevo, l’attacco alla Serbia e quindi la questione dei Balcani, com’è comunemente accertato dagli storici, non furono le cause scatenanti la guerra, ma i pretesti per risolvere con la forza le tensioni accumulate da tempo tra le nazioni europee.
Se è facile individuare il 1914 come l’anno d’inizio del conflitto mondiale, più difficile è collocare storicamente il sorgere dei contrasti internazionali tra gli schieramenti opposti o all’interno degli stessi, e quindi la vera origine della guerra. Nel 1870 con la sconfitta a Sedan della Francia imperiale e la nascita del Reich a Berlino? Nel 1890 con la fine nel vecchio continente del sistema d'equilibrio voluto dal Cancelliere tedesco Otto Von Bismarck? Alla fine del secolo con il diffondersi delle politiche imperialiste? Nel 1907 con la nascita dell’Intesa (l'alleanza tra Gran Bretagna, Francia e Russia) e il convincimento dei tedeschi di essere isolati? Oppure ancor più recentemente?
Inoltre la Germania e l’Austria-Ungheria furono le vere ed uniche responsabili del conflitto oppure le potenze, risultate poi vincitrici, ebbero anch’esse la loro quota di responsabilità? Ed infine la guerra poteva essere evitata o fu l’unica soluzione alle tensioni internazionali presenti?
Queste molte domande indicano quanto sia complesso ed ampio il tema delle cause della Prima Guerra Mondiale.

La Triplice Alleanza
Nel 1914, alla vigilia dello scontro bellico, due erano i blocchi contrapposti. Nella Triplice Alleanza (formatasi nel 1882 e comprendente Germania, Austria-Ungheria ed Italia) il centro decisionale si trovava storicamente spostato verso la Germania e l’Austria, mentre l’Italia, se si esclude il periodo iniziale dell'alleanza, ricopriva una posizione subalterna alle sue alleate. Berlino si considerò, almeno fino ai primi del secolo, la sede in cui venivano prese le decisioni riguardanti le relazioni e gli equilibri europei. Se questa convinzione poteva essere vera fin quando il paese e la politica estera tedesca furono guidati da Bismarck, più difficile sarebbe stata sostenerla con i suoi successori, meno abili a prevenire l’isolamento diplomatico della Germania.
La sconfitta diplomatica della Germania nel 1906 alla Conferenza Internazionale di Algeciras e nel 1911 alla Conferenza di Agadir, nel tentativo di far riconoscere da Francia e Gran Bretagna propri interessi economici e territoriali in Marocco (paese strategico geograficamente e ricco di fosfati, importante risorsa naturale del periodo), e la nascita dell’Intesa, spinsero Berlino, che adesso si sentiva minacciata, a legarsi in maniera più stretta all’Austria, nel momento in cui a Vienna diveniva capo della diplomazia austriaca, e futuro Cancelliere, Ludving Von Aehrental.
Il programma del Ministro degli Esteri di Vienna era quello di riportare l’Austria ad un ruolo internazionale più attivo e prestigioso, ed il naturale obiettivo di questa politica erano i Balcani. Aehrental e, dal 1913 il suo successore, Leopold Von Berchtold, intravidero nel controllo dei Balcani la possibilità di limitare, se non spegnere, le spinte indipendentiste delle popolazioni slave, in particolare distruggere il nazionalismo serbo che faceva da polo attrattivo per la causa separatista delle varie nazionalità componenti l’Impero austro-ungarico.
I Balcani per circa un decennio, fino al 1908, erano stati relativamente calmi. L’Austria aveva adottato un atteggiamento di basso profilo, mentre la Russia, l’altra potenza da sempre interessata a questa zona per ottenere uno sbocco al mare caldo, era impegnata in Estremo Oriente contro l'espansione del Giappone. Poi la lunga crisi dell’Impero Ottomano, che seppur debolmente e con estreme difficoltà, controllava ancora una gran parte della regione, l’annessione della Bosnia da parte dell’Austria nel 1908 e le influenze russe in Serbia riportarono la questione dei Balcani al centro delle preoccupazioni europee. Le tre guerre balcaniche, che tra il 1912 ed 1913 portarono al definitivo ritiro dell'Impero Ottomano dalla regione ed alla nascita di nuovi stati, le continue tensioni tra Vienna, rimasta delusa dalla nuova sistemazione dell'area, e la Serbia, quest’ultima appoggiata da Pietroburgo, facevano intravedere scenari instabili e tesi. Non a caso il conflitto mondiale ebbe come molla scatenante i fatti si sangue di Sarajevo. Per l’Austria il problema serbo era risolvibile solo attraverso un conflitto.
Per quanto riguarda la Germania, la sua entrata in guerra a fianco dell’Austria, al di là dell'automatismo dell'accordo militare, (formula che raramente sarà riproposta ed adottata nei testi delle alleanze militari successive) e del convincimento tedesco della propria superiorità bellica, fu suggerita dalla preoccupazione degli ambienti militari e politici di Berlino per l’eventuale sconfitta austriaca, evento che avrebbe fatto cadere la Triplice e lasciato sola la Germania. Una Triplice che però era già stata indebolita dallo storico e difficile rapporto tra Austria e Italia riguardo le questioni delle terre irredente, dei Balcani, dove l’Italia voleva maggiori soddisfazioni, e dall’atteggiamento italiano assunto negli ultimi quindici anni. Roma infatti, ripagando la scarsa attenzione nei suoi confronti da parte delle potenze centrali, si era rivolta al di fuori dell’Alleanza, agendo in maniera quasi indipendente, instaurando buoni rapporti diplomatici e raggiungendo accordi in campo coloniale con la Francia (dal 1896 al 1905 una serie d'intese tra i due paesi disciplinò la futura presenza italiana nel Nord Africa) e la Gran Bretagna (durante le due conferenze sul Marocco, l'Italia sostenne la politica di Londra di tenere fuori dall'Africa la Germania) cioè con i naturali avversari della Triplice.

L'Intesa
Dall’altra parte c’era l’Intesa. Nel 1907 Gran Bretagna, Francia e Russia stringendo accordi erano riuscite a superare completamente o in parte i contrasti che fino allora avevano condizionato le loro relazioni diplomatiche e ostacolato i tentativi di più ampie intese.
Gli anni precedenti erano stati caratterizzati dallo scontro-incontro tra questi tre protagonisti. Dal 1894 Francia e Russia erano legate da una convenzione militare, anche se per lungo tempo le dirigenze politiche dei due paesi mantennero una reciproca diffidenza, dovuta al fatto che non tutti erano disposti ad accettare un’alleanza tra due sistemi politici così diversi, una Repubblica e un Impero. Per la Francia tale accordo fu l’uscita dall’isolamento impostole dalla Germania di Bismarck, mentre per la Russia una tale apertura ai francesi fu lo strumento diplomatico da usare come pressione su Berlino e quindi su Vienna riguardo i Balcani.
La Gran Bretagna aveva visto negativamente l’accordo militare franco-russo attribuendogli un carattere antibritannico, veniva infatti interpretato come l’intento della Francia e della Russia di rivolgere la loro attenzione verso il Mediterraneo. Sembrò allora possibile un’apertura del governo britannico alla Germania, scelta sostenuta dall’aspirazione di Londra di ridurre la potenza e l’influenza francese nel continente. Questa strategia dovette però scontrarsi con una Germania sempre più aggressiva. Berlino infatti continuò nei suoi piani per la creazione di una potente flotta (si voleva sfidare la Gran Bretagna sui mari?), non solo, l'Imperatore tedesco, Guglielmo II, interferì nella questione del Transvaal. Londra da tempo infatti contrastava il desiderio dei coloni di questa ricca regione del Sud Africa di mantenere l'indipendenza dalla Gran Bretagna, questione che darà spunto alla guerra dei boeri (1899-1902). Il Kaiser, che controllava la vicina Namibia, chiese invano che il problema fosse risolto da una conferenza internazionale; un'altra volta la Germania sfidava Londra. Quest'ultima quindi di fronte all'atteggiamento tedesco ed ottenuto il chiarimento sull’accordo franco-russo, che non aveva funzione antibritannica, ridimensionò la propria preoccupazione e l'apertura a Berlino.
I rapporti pessimi tra Londra e Parigi invece in campo coloniale (l'incidente di Fashoda del 1898) erano stati risolti con le intese del 1899 e del 1904, nelle quali si stabilivano le spartizioni territoriali in Africa, a danno del moribondo Impero Ottomano, ed in Asia.
Difficili erano anche le relazioni tra la Gran Bretagna e la Russia. Pietroburgo dal 1850 aspirava ad un progetto ambizioso, dare una nuova continuità territoriale all’Impero, dal Tibet alla Persia, andando a toccare gli interessi inglesi. Sebbene nel 1907 i due paesi riuscissero a raggiungere un accordo sul reciproco riconoscimento dei propri possedimenti in Asia, le tensioni e le reciproche diffidenze continuarono. Infine non bisogna dimenticare i conflitti in Cina settentrionale tra la Russia e una futura aderente all’Intesa, il Giappone, dal 1902 alleato agli inglesi proprio per contenere i russi.
Riassumendo quindi vediamo che le potenze non aderenti alla Triplice avevano più punti di contrasto che di contatto; non solo, ma se si esclude la Francia (per la questione dell’Alsazia e della Lorena e per il sentimento di rivincita che alimentava dal 1870), le altre potenze europee non avevano alla fine dell’800 elementi sui quali essere in aperto conflitto con la Germania.

La nuova strategia della Germania
Come nasce allora il desiderio di dare vita all’Intesa? Responsabile fu certamente l’atteggiamento sostenuto dalla diplomazia tedesca dopo l’uscita di scena di Bismarck. Bismarck fu infatti consapevole del fatto che la posizione di prestigio che Berlino era riuscita a conquistarsi in campo militare e politico internazionale poteva essere garantita solo con il mantenimento di quell’equilibrio di forze che si era venuto a creare nel 1870 con la vittoria della Germania sulla Francia. Questa cristallizzazione della situazione europea fu possibile solo attraverso la realizzazione di un sistema di alleanze dirette o indirette che coinvolse tutti paesi, esclusa la Francia, al fine di allontanare e superare tutte quelle condizioni conflittuali che potevano essere delle premesse di guerra.
Se il sistema bismarckiano (seppure con i suoi limiti: l'innaturale alleanza tra Russia e Austria del 1881e durata dieci anni, l'eccessivo accentramento tedesco del sistema e l’inestinguibile risentimento antitedesco della Francia) fu una garanzia per il mantenimento della pace in Europa, il tentativo dell’Imperatore Guglielmo II e dei vari Cancellieri o Ministri degli Esteri (Caprivi, Bülow, Besthmann e Kinderlen) di allontanarsene significava che la Germania si preparava per una nuova strategia: lo scontro diplomatico e la guerra.
Dal punto di vista interno la Germania durante il governo di Bismarck, approfittando del periodo di pace che conobbe dal 1870, ebbe un notevole sviluppo economico e demografico. Questo significò porsi in Europa, dal punto di vista della produzione, alla pari della Gran Bretagna; la Francia invece aveva subito una crisi economica, mentre la Russia soffriva di una certa arretratezza industriale. Inoltre l’aumento della popolazione aveva un significato importante se legato alla forza militare; Berlino poteva disporre di militari in numero inferiore solo alla Russia, ma rispetto a questa molto più organizzati, mentre la Francia doveva registrare un calo della propria popolazione e la Gran Bretagna era riconosciuta più come potenza navale che terreste, non avendo infatti la ferma obbligatoria.
Lo sviluppo dell’economia tedesca contribuì alla formazione di una classe capitalista che operò a stretto contatto con la dirigenza politica, spesso influenzandone le scelte in campo interno ed internazionale, e alla creazione di un esercito efficiente. Questi erano i presupposti per la nascita di un imperialismo germanico. La consapevolezza che si respirava a Berlino di essere diventati una potenza a tutti gli effetti spinse la dirigenza politica e militare a chiedere maggiori soddisfazioni nel quadro delle relazioni internazionali, facendo cioè pesare nei rapporti con le altre potenze il maggior potere economico e militare. Gli ambienti economici e finanziari fecero pressioni presso i politici per la ricerca di nuovi mercati e di colonie. Un’economia sempre più in espansione aveva bisogno di sempre più materie prime.
Sul finire del secolo il riarmo terrestre e, in particolare quello navale fu usato dalla Germania per premere su Londra affinché accettasse, di fronte ad una rivale sui mari, di dar vita ad una Lega continentale, un sistema di alleanze europee con Berlino a ricoprire un ruolo preminente. Nonostante a Londra un’apertura alla Germania non fosse vista negativamente da alcuni membri del governo e l’esperienza difficile della guerra dei boeri avesse reso meno splendido l’isolamento inglese, non ci fu l’avvicinamento a Berlino. La Gran Bretagna, di fronte alle continue richieste tedesche di accordarsi, accompagnate però dalle notizie di ulteriori potenziamenti della flotta germanica, iniziò a preoccuparsi, consapevole del fatto che perdere la supremazia navale significava perdere quella coloniale.
Si creano gli opposti schieramenti
L’imperialismo tedesco puntava così a minacciare quelle posizioni che la Francia e la Gran Bretagna avevano conquistato da tempo o che stavano consolidando, in Africa ed in Asia. Le crisi marocchine dimostrarono che Parigi doveva preoccuparsi non solo di avere un potente avversario confinante, ma anche di dover contrastarlo in Africa settentrionale. Dall’altra parte Londra dovette assistere alla penetrazione economica dei tedeschi nell’Impero Ottomano. L'affidamento alla Germania della costruzione della linea ferroviaria Berlino-Bagdad, portava i tedeschi fino al Golfo Persico e quindi apriva la porta all’India inglese. Proprio in quegli anni (1904) si diffondeva la tesi geopolitica del fulcro di Mackinder, il quale sosteneva che chi avesse controllato la regione euroasiatica avrebbe controllato il mondo. La Gran Bretagna sapeva che nelle colonie la costruzione di ferrovie, collegata alla diplomazia ed alla strategia, era strumento di conquista Inevitabilmente francesi e inglesi si trovarono più vicini.
I tedeschi e gli austriaci non erano però più imperialisti e militaristi delle grandi potenze occidentali, ma la Germania e l’Austria, così come la Russia ed il Giappone, erano Stati burocratico-militari, mentre in Francia e in Gran Bretagna il militarismo si trovava inserito in un contesto democratico e liberale. Questo non vuole condannare la politica imperialista di uno e giustificare quella di altri, ma nei primi, certamente più influenza ebbero le caste militari sulla diplomazia, per una politica estera più aggressiva.
Gli inglesi e i francesi che possedevano i due più grandi imperi coloniali del mondo erano relativamente più soddisfatti e avevano perciò un atteggiamento più conservatore, pacifista ed ostile alle potenze centrali, viste come forze disgreganti. Inoltre il militarismo imperialista tedesco trovava radici nelle mire espansionistiche del capitalismo finanziario che comunque, va ricordato, aveva un ruolo predominante in tutti i grandi Stati economicamente sviluppati.
L’insuccesso diplomatico tedesco ad Algeciras ed Agadir e la nascita dell’Entente Cordiale (l'intesa tra Francia e Gran Bretagna del 1904), portò la Germania a sentirsi isolata e, come potenza imperialista, completamente frustrata nelle sue pretese di migliorare le proprie posizioni. La Germania pensava che la guerra fosse inevitabile.
Del 1905 è la rivisitazione del piano militare tedesco Schlieffen, che individuava già i nemici da abbattere, la Francia e la Russia, e prevedeva, come in parte avvenne nelle prime fasi del conflitto mondiale, di annientare i francesi, violando la neutralità del Belgio, e per poi attaccare la Russia, meno industrializzata e meno efficiente a mobilitarsi. Tale piano non prevedeva il coinvolgimento nella guerra, prevalentemente terrestre, dei britannici, e si sottovalutò che l’invasione del Belgio avrebbe fatto scattare, come poi avvenne, il sistema difensivo di Londra e la sua entrata in guerra. Le diplomazie europee in questo periodo si attennero troppo ai consigli dei militari, non sempre lungimiranti.

Verso la guerra
I piani di riarmo di entrambi gli schieramenti continuarono. La Germania era desiderosa di mettere in opera la propria macchina da guerra, convinta della superiorità militare nei confronti dell’Intesa. Nel 1911 i militari tedeschi vedevano un conflitto come l’occasione per costruire un Impero a misura della potenza tedesca. L’Alto Stato Maggiore tedesco aspirava ad ampi domini coloniali in Africa ed in Asia, da conquistare ai danni dei francesi; ancora una volta per la Germania l’avversario principale era la Francia.
Tedeschi e austriaci sapevano che con il tempo che passava la superiorità militare di cui godevano poteva essere messa in crisi dalla ricchezza dell’impero britannico e francese. Gran Bretagna e Francia ritenevano più favorevole il rinvio di alcuni anni della guerra per dare tempo alla Russia di riprendersi dalla sconfitta con il Giappone del 1904 e per risolvere le tensioni politico-sociali interne.
La Germania era propensa a scatenare invece una guerra prima che l’Intesa portasse a termine il riarmo, tanto da assumersi la responsabilità del conflitto, perché Berlino non riusciva, a differenza della Gran Bretagna e della Francia, ad avere soddisfazione nell’ambito delle crisi locali, e negli accordi diplomatici che ne seguivano.
La Germania e l’Austria, fiduciose della propria forza militare, furono le responsabili dello scoppio del conflitto, prendendo a pretesto la crisi balcanica, ma il modo e il tempo dell’operazione fu una scelta strategica: colpire prima che l’avversario si rafforzasse e colpisse per primo. L’obiettivo comune dei due blocchi contrapposti era l’indebolimento dei nemici e la conquista del dominio mondiale; l’imperialismo costituiva la base di entrambi gli schieramenti. Dopo il 1907, con il definirsi dei due schieramenti, la guerra sembrò molto vicina sebbene nessuno l’auspicasse. Berlino puntava ad un posto al sole in Africa ed in Asia, ma Francia e Gran Bretagna non vollero cedere, Vienna puntava ai Balcani, ma il nuovo assetto che era stato dato alla regione non aveva favorito l’Austria, anzi si era rafforzata la posizione e l’influenza russa nella zona ed aggravata la questione del nazionalismo. Le potenze centrali si resero conto che l’unica possibilità per vedere i propri obiettivi realizzati era sconvolgere l’attuale situazione politica e di forze e dare vita ad un nuovo ordine più a loro favorevole. La guerra fu l’unico strumento a loro disposizione.

Bibliografia orientativa
R. Albrecht-Carriè, Storia Diplomatica d’Europa (1815-1968), Laterza, Roma-Milano, 1978, Vol. I.
M.L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea, Loescher Editore, Torino,1977, Vol. I.