mercoledì 29 giugno 2011

Il lento declino del secolo americano

“In un decennio abbiamo speso mille miliardi per la guerra, durante un periodo duro, di difficoltà economiche e debiti crescenti. Mettiamo un termine, responsabilmente, a queste guerre e riprendiamoci il Sogno americano. L’America è stata davvero forte quando è stata in grado di creare opportunità in patria per i suoi cittadini. Se c’è una nazione da ricostruire, questa è la nostra”. Barack Hussein Obama, discorso sull’Afghanistan, 24 giugno 2011.
Commento di Francesco Della Lunga

Gli Stati Uniti divennero una grande potenza mondiale con l’ingresso nella Prima Guerra Mondiale. Abbandonarono le attenzioni al loro “Giardino di Casa” (il continente americano, nord e sud) e, spinti da un lato dall’esigenza di riprendere i commerci messi a repentaglio dai sommergibili tedeschi che bloccavano i navigli durante la traversata atlantica ma anche di malavoglia, tenuto conto delle opinioni di Woodrow Wilson sull’azione diplomatica europea si gettarono nel più grande conflitto dell’era moderna (sulle opinioni di Wilson rimangono famosi i quattordici punti rubricati al termine del conflitto che racchiudevano il suo pensiero sull’ordine mondiale. Wilson contestava alcuni atteggiamenti tipici delle potenze europee del tempo, fra cui la prassi degli accordi segreti, vedi ad esempio il Patto di Londra, chiave dell’ingresso italiano nella Grande Guerra. Wilson si adoperò in modo da fare in modo che i trattati di pace raccogliessero nel modo più attinente possibile i precetti dei quattordici punti ed a causa dei quali, ad esempio, il nostro paese dovette negoziare duramente sui confini orientali). Ma ancora non erano la Grande Potenza perché le potenze europee, ancora in possesso dei loro Imperi, recitavano un ruolo fondamentale nell’ordine mondiale. Ma le prime crepe ai grandi imperi e disegni imperiali (di Francia e Gran Bretagna, possessori di imperi su cui non tramontava mai il sole ma anche di quelli più piccoli delle potenze arrivate da pochi decenni nel Concerto Europeo, Germania ed Italia) iniziavano ad intravedersi e si sarebbero poi delineate durante il periodo di pace fra le due guerre ed affermatisi definitivamente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. I conflitti irrisolti della Grande Guerra (la sconfitta della Germania ed il Trattato di Pace di Versailles con i trattati paralleli firmati nel 1919), la questione delle nazionalità e l’ascesa dei nazionalismi e dei fascismi gettarono nuovamente l’Europa nel secondo, devastante, conflitto mondiale. Gli USA intervennero nuovamente per aiutare le potenze libere (Francia e Gran Bretagna) e fu da allora che iniziarono a dominare il mondo, in coabitazione con l’URSS, contro la quale ingaggiarono una guerra a tutto campo che si manifestò con guerre convenzionali solo in aree geografiche strategiche ma lontane dai loro confini (Corea 1950, Vietnam fra i Sessanta ed i Settanta, più o meno direttamente in Afghanistan, 1980, in vari teatri africani, di nuovo nel giardino di casa, in Sudamerica per impedire l’attecchimento del Male, così come venne definito da Ronald Reagan il Comunismo in generale, quello sovietico in particolare), mentre assunse i toni di una grande guerra ideologica, politica, economica, sociale, storicamente conosciuta sotto il nome di Guerra Fredda che in definitiva si indirizzò verso l’annientamento dell’ideologia comunista di cui l’URSS era il principale artefice e propalatore nonché baluardo dell’ortodossia. Fu in nome di questa lotta, dell’affermarsi degli interessi americani nel mondo, nell’affermazione delle democrazie in paesi che si stavano lentamente liberando dai gioghi imperiali delle ormai ex potenze europee che Washington assurse a Grande Potenza Mondiale. Contemporaneamente le potenze europee diventarono ex potenze perché il loro mondo, dopo la quasi totale distruzione dell’Europa causata dalla guerra, era definitivamente crollato. Ma le potenze europee risultate vincitrici nella Seconda Guerra Mondiale con gli USA (Gran Bretagna e Francia), non si resero conto della perdita del loro potere fino ai fatti di Suez (1956). Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso gli storici delle relazioni internazionali più autorevoli decretarono la fine dell’Eurocentrismo ed il passaggio del testimone da Gran Bretagna e Francia agli Stati Uniti. A questi ultimi venne lasciato il compito di riaffermare la cultura occidentale e soprattutto la sua espressione di potenza militare, economica, sociale. Nel frattempo gli USA garantirono la rinascita europea, non si opposero, anzi favorirono, la nascita della Comunità Europea in funzione antisovietica, si gettarono nello scontro clamoroso contro l’URSS che avrebbe visto vincitori gli USA solamente nel 1989. Molte cose erano accadute negli anni che sarebbero passati dal 1945 al crollo del Muro di Berlino. La “cortina di ferro” in Europa si sarebbe dissolta nel novembre 1989, il Patto di Varsavia crollato in pochi mesi, l’URSS sconfitta definitivamente e consegnata alla Storia come Stato Sovrano per lasciare lo spazio ad una mai consolidata Comunità degli Stati Indipendenti (le ex Repubbliche Sovietiche) e soprattutto ad una Russia che avrebbe attraversato una lunga transizione, ancora oggi non conclusasi. Gli USA sarebbero apparsi come gli unici vincitori di un conflitto epocale, caratterizzato da guerre in aree periferiche del mondo con l’obiettivo di contendersi la leadership mondiale, sempre in chiave di lotta USA contro URSS e viceversa. Così gli americani sarebbero diventati, nell’immaginario collettivo, il Grande Gendarme del mondo. Poi arrivò l’11 settembre, circa dodici anni dopo la vittoria della guerra contro il Comunismo. Il pericolo sarebbe arrivato da Oriente, da mondi che in passato erano stati contrapposti all’URSS e che ancora prima sarebbero stati vicini all’Occidente (Afghanistan, Pakistan, Iran, paesi comunque che avrebbero attraversato anch’essi la grande ondata della decolonizzazione negli anni Cinquanta del secolo scorso). Gli USA avrebbero ancora gettato tutto il loro peso militare per vendicare i morti delle Torri Gemelle. Ma qualcosa stava cambiando. L’amministrazione Clinton, sul finire del secolo scorso, fu la prima a percepire un certo cambiamento ma anche a constatare i danni prodotti dal terrorismo internazionale (gli attentati di Nairobi (1998), quello delle Torri Gemelle sul proprio territorio (1993), altri attentati come quello alla portaerei americana nel Golfo di Aden (2000), soltanto per citarne alcuni). Poi, dopo l’attacco di Al Quaeda alle Torri Gemelle, Bush Junior avrebbe ancora una volta spinto gli USA verso un nuovo conflitto, stavolta costruendo a tavolino una guerra contro l’Iraq, con la famosa “pistola fumante” scoperta dall’allora capo del Pentagono Powell che mostrava davanti ad una attonita Assemblea Generale delle Nazioni Unite, le prove della responsabilità irachene nella costruzione della bomba nucleare. Poi la continuazione della guerra in Afghanistan. Alla fine dei primi dieci anni del nuovo secolo sarebbe arrivato Obama. Che avrebbe dato uno scossone all’immagine USA, immagine che fino a pochi anni fa vedeva gli americani sempre più invisi ed odiati nel mondo. Una rivoluzione che si poteva avvisare in tutti i discorsi che hanno contraddistinto questo mandato alla Casa Bianca, a partire dai discorsi nell’africa ex francofona e quello del Cairo. Che in qualche modo era stata prevista. Oggi gli Stati Uniti appaiono stanchi, svuotati, non più desiderosi di andare a cacciarsi in nuove guerre in nome della democrazia e della superiorità della civiltà occidentale. Obama afferma, in un ennesimo discorso che entrerà nella Storia, che gli USA sono stati il paese più grande quando dovevano dare una speranza ai propri cittadini. Quando, insomma, la frontiera doveva essere raggiunta. Parrebbe quindi che gli americani stessero per accingersi a rientrare dentro i loro confini, con l’idea di scoprire nuove frontiere, nuovi orizzonti, nuovi confini per uscire o allargare i recinti delle loro irrinunciabili convinzioni. Quelle di fare, in qualche modo, la Storia. Che cosa accadrà se Washington dovesse tornare davvero a guardare il proprio “giardino di casa” lasciando perdere gli altri continenti se non quello asiatico dove la potenza cinese sta risvegliando la nuova frontiera statunitense? Il mondo dovrebbe riposizionarsi, ancora una volta, e trovare nuovi leader. L’Europa dovrebbe tornare ad occuparsi di se stessa e del proprio futuro, lasciato per delega agli americani negli ultimi sessant’anni. Per fare questo dovrebbe rafforzarsi, piuttosto che disgregarsi o condannarsi all’inazione come visto negli ultimi anni con una sostanziale immobilità politica oppure con la baldanzosa solitudine francese. Se il soldato americano tornerà definitivamente a casa, gli europei si sveglieranno dal loro dolce sonno, durato miracolosamente quasi sessant’anni. Solo così scopriremo se l’Europa diventerà una grande realtà oppure se sarà condannata alle tante realtà contraddistinte da ormai quasi indifendibili patrie. Il declino del secolo americano pare decisamente iniziato, ma sarà lungo e non sapremo quando effettivamente si manifesterà. L’Occidente per la prima volta dopo secoli, con l’Europa prima e gli USA nei decenni venturi, potrebbe perdere per sempre la sua supremazia.

Le non piene responsabilità di Saddam Hussein nella prima guerra del Golfo

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

L’ambasciatore Sergio Romano nella sua rubrica, “Lettere al Corriere”, nelle settimane scorse ha risposto ad un lettore sulle effettive responsabilità di Saddam Hussein nello scoppio della prima guerra del Golfo. Il lettore riassume nella sua lettera un brano tratto dal libro “Il business diverte”, di Richard Branson ed edito da Tecniche Nuove: “…quando Saddam Hussein invase il Kuwait, re Hussein di Giordania fu uno dei pochi leader mondiali che si rifiutarono di condannarlo su due piedi. Faceva notare che il Kuwait aveva promesso all’Iraq alcuni pozzi petroliferi come parte del contributo per la lunga guerra sostenuta contro l’Iran, ma che poi si era sempre sottratto all’impegno e non aveva neppure rispettato le quote Opec…”. Romano chiarisce l’intervento del lettore. Nel 1979, in seguito alla salita al potere degli Ayatollah in Iran, il Kuwait iniziò a preoccuparsi per la propria indipendenza, infatti, non poteva più contare sulla tutela della Gran Bretagna e il 30% della propria popolazione era sciita, quindi potenzialmente attratta da Teharan. Al momento dello scoppio del conflitto Iraq-Iran nel 1980, il Kuwait scelse di appoggiare l’Iraq, finanziandolo con prestiti. Nonostante questo Saddam iniziò ad avere a ridire sulla condotta del piccolo sultanato, infatti, nonostante l’invito di Baghdad, il Kuwait continuava ad estrarre quantità di petrolio superiori a quanto stabilita dall’Opec, determinando così la caduta dei prezzi del greggio e quindi causando indirettamente la riduzione dei ricavi iracheni dalla vendita dei propri barili di petrolio (nel 1990 Saddam disse: “un dollaro in meno nella quotazione del petrolio comporta la perdita annuale per l’Iraq di un miliardo di dollari”). Le cose precipitarono quando l’Iraq chiese al Kuwait di rinegoziare la restituzione del prestito e di rivedere i confini che non erano mai stati sanciti definitivamente. Ma il piccolo Stato rifiutò qualsiasi apertura al dialogo ed assieme agli Emirati Arabi Uniti, sotto il silenzio-assenso dell’Arabia Saudita, altro paese rivale dell’Iraq, continuò a vendere quantitativi di petrolio che superavano anche del 40% le quote Opec. Ovviamente Romano ricorda che questa ricostruzione dei fatti non può far negare il fatto che l’Iraq invadendo il Kuwait violò il diritto internazionale e pertanto fu responsabile di quella guerra, che comunque, aggiungo io, come quasi tutte le guerre, poteva essere evitata.
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lunedì 27 giugno 2011

La prima portaerei cinese

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Si chiamerà Shi Lang, in onore dell’ammiraglio cinese che conquistò Taiwan nel 1681, la prima portaerei della Repubblica Popolare Cinese. Ci vorrà ancora del tempo per vederla in mare, infatti la portaerei è ancora in cantiere nel porto di Dalian, è un ex unità sovietica (classe Kuznetsov), acquistata dall’Ucraina nel 1998 da una società di Hong Kong, che avrebbe dovuto convertirla in un casinò, per poi, invece, venderla 2 anni dopo alla Marina cinese. La notizia dell’allestimento della portaerei è stata confermata dalle autorità cinesi solo da poche settimane, ed ha allarmato gli USA ed in particolare i paesi confinanti con la Cina preoccupati difatti delle ambizioni navali di Pechino. Negli ultimi mesi si sono accese tensioni tra la Cina ed alcuni Stati della regione proprio su questioni marittime. Il Vietnam ha accusato la Cina di aver violato il proprio spazio marittimo nel maggio scorso (con cui vi è tensione per il controllo delle isole Pacel, ricche di idrocarburi), le Filippine hanno criticato il progetto cinese di costruire impianti petroliferi nelle zone di mare contese (isole Spratly), inoltre questa nuova unità navale permetterebbe il rapido spostamento nel Mar Cinese Meridionale di aerei da combattimento, uno strumento di pressione inquietante per molti paesi del sud-est asiatico.
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venerdì 24 giugno 2011

Le foto di Hiroshima colpita dalla bomba nucleare

A cura di Roberto Di Ferdinando

E’ in corso fino al 28 agosto prossimo, a New York, presso il Centro Internazionale di Fotografia (http://www.icp.org/), la mostra fotografica dal titolo “Hiroshima: Ground Zero 1945”, in cui sono esposte al pubblico per la prima volta assoluta 60 foto che raccontano la distruzione della bomba nucleare americana. Per anni gli USA avevano proibito la diffusione di queste immagini per non creare dissenso nell’opinione pubblica, in particolare quella statunitense. Le autorità di Washington, infatti, avevano capito l’importanza delle immagini nel raccontare direttamente la guerra e come la pubblicazione di alcune foto aveva suscitato un grande dibattito all’interno degli USA sulle responsabilità politiche e militari nella conduzione del secondo conflitto mondiale, basti pensare all’emozione che suscitò la pubblicazione di foto degli internati di Auschwitz e le immagini del bombardamento di Dresda.
Le immagini oggi esposte fanno parte di un rapporto segreto in tre volumi contenenti 800 foto e fu realizzato due mesi dopo la tragedia da un team d’ingegneri e architetti inviati dal presidente Truman a Hiroshima per analizzare i danni civili, economici e militari causati dalla bomba. Il reportage durò sei settimane. Gli USA utilizzarono tale rapporto per ottenere delle indicazioni per come predisporre le difese nazionali e limitare i danni qualora gli Stati Uniti avessero subito un attacco nucleare. Oggi su questo rapporto e sulle immagini è stato tolto il segreto di Stato.
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giovedì 23 giugno 2011

Il sogno delle giovani indiane è lavorare per le compagnie aeree

(fonte: Sette-Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

In India vivono 1.210.193.422 persone, la popolazione è cresciuta di 181 milioni negli ultimi 10 anni, ma l’aumento per la prima volta è sceso sotto il 20%. Gli uomini sono 623.724.000, le donne 586.469.000 (nascono 940 femmine ogni 1.000 maschi). L’alfabetizzazione tra gli uomini è dell’82%, invece è del 65,46% tra le donne.
Negli ultimi anni le giovani donne indiane sembrano ambire ad essere assunte dalla Jet Airways, la prima compagnia aerea indiana (13.000 dipendenti, controlla il 26,1% del mercato, possiede una flotta di 115 aerei e copre 65 rotte nazionali ed internazionali con 500 voli giornalieri). Infatti chi supera le durissime prove di selezione per diventare hostess della Jet Airways potrà firmare un contratto triennale con stipendio mensile di 35 mila rupie (circa 600 euro), uno stipendio altissimo per una ragazza indiana di venti anni (il 54% della popolazione indiana ha meno di 25 anni), basti pensare che in India tale cifra la guadagnano gli ingegneri informatici di Bangalore (l’eccellenza tecnologica indiana), oppure, che nelle campagne si vive con meno di 100 euro al mese. I ricchi stipendi della jet Airways iniziano ad essere ambiti anche dai giovani maschi indiani.
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mercoledì 22 giugno 2011

Chiarezza anche sulla morte di Pablo Neruda

(fonte: La Stampa), a cura di Roberto Di Ferdinando

Il giudice cileno Mario Carroza, lo stesso che alcune settimana fa ha fatto riesumare la salma dell’ex presidente Allende per fare chiarezza sulla sua morte (suicidio od omicidio? – vedi il post del 30 maggio 2011), ha acquisito le cartelle cliniche ed i documenti sanitari del poeta cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971 e morto di tumore nel 1973. Carozza anche in questo caso vuole indagare se Neruda morì per cause naturali o il regime di Pinochet fu responsabile della sua morte. Neruda infatti era amico intimo di Salvator Allende e suo ambasciatore a Parigi, e fu proprio Allende a convincere Neftali Ricardo Reyes (il vero nome di Neruda) a rientrare in patria per curarsi il tumore alla prostata. Successivamente al suo rientro si verificò il golpe di Pinochet, era l’11 settembre 1973. Neruda in quelle ore fu condotto per motivi di sicurezza in clinica, qui la versione fino ad ora conosciuta ci racconta che Neruda morì il 23 settembre a causa della gravità della sua malattia. Ma due testimoni diretti hanno raccontato che le cose andarono diversamente. Manuel Araya, ex autista ed assistente di Neruda, ha riferito che il poeta quando giunse in clinica era in buone condizioni, ed il 22 settembre gli disse che poco prima era entrato un medico che gli aveva fatto un’iniezione allo stomaco. Il giorno dopo Neruda morì. Avvelenato? A confermare la versione di Araya, anche Gonzalo Martinez, ex ambasciatore messicano nel Cile di Allende, che fu molto presente negli ultimi giorni di vita del poeta. Infatti il Messico stava programmando da giorni la fuga di Neruda, il presidente messicano, Echevarria, attivò il suo diplomatico perché portasse in salvo a Città del Messico il poeta e sua moglie. Ma la loro partenza fu ritardata di due giorni ed il poeta nel frattempo morì. Secondo Araya, Pinochet, preoccupato che Neruda, rifugiandosi all’estero, potesse diventare il leader dell’opposizione al suo regime, lo fece uccidere con un’iniezione letale. Adesso anche la salma di Neruda sarà riesumata per le indagini del caso. Oggi in Cile si cerca di fare luce su 727 morte sospette del primo periodo della dittatura dei militari, anche sulla fine dell’ex presidente democristiano, Eduardo Frey, deceduto nella stessa clinica di Neruda, nel 1980).
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martedì 21 giugno 2011

Perché l’Occidente vuole fare fuori Gheddafi?

(fonte: Nigrizia), a cura di Roberto Di Ferdinando

Sono passati più di tre mesi dall’inizio del bombardamento NATO sulla Libia e l’operazione sta attraversando un momento di stallo. Comunque, i conflitti armati tra rivoltosi e lealisti si sono ridotti e la popolazione civile è un po’ meno sotto minaccia, rispettando così gli obiettivi della risoluzione ONU che ha legittimato l’intervento militare. Invece i “Volenterosi”, andando oltre il mandato ONU, stanno tentando di cacciare dalla Libia, o meglio ancora per loro, di uccidere Gheddafi. Perché quest’accanimento contro il rais? E’ vero che Gheddafi è un dittatore, un sanguinoso terrorista, ed il mondo e la Libia sarebbero migliori senza di lui, ma ciò non dovrebbe autorizzare l’Occidente ad uccidere volontariamente una persona, brutale che sia, anche se ormai dopo l’assassinio di Osama Bin Laden, i governanti democratici non si pongono più questo problema etico. Comunque, l’intervento in Libia non è stato avviato per motivi umanitari, bensì per meri obiettivi economici, e la Francia, che difatti ha voluto l’intervento, sarebbe il paese che trarrebbe di più dall’uscita di scena di Gheddafi. Jean-Paul Pougala, direttore dell’Istituto di studi strategici e professore di sociologia all’Università di diplomazia di Ginevra, sul numero della rivista Nigrizia del maggio scorso cerca di spiegare quali interessi ci siano dietro l’operazione NATO in Libia. Iniziamo.
Fino a pochi anni fa le telefonate da e per l’Africa, ma anche all’interno di uno stesso stato avevano costi altissimi perché si appoggiavano su satelliti europei (intelsat) ed era prevista una tassa di 500 milioni di dollari da pagare agli Stati europei. I costi per i paesi africani si sarebbero ridotti se avessero potuto contare su un proprio satellite, che costava 400 milioni di dollari. Troppi per il Continente Nero e Banca Mondiale, FMI e l’Unione Europea erano disposti a finanziare l’operazione solo con tassi d’interesse esosi. Così ci pensa Gheddafi che mette sul piatto 300 milioni di dollari, la Banca Africana di Sviluppo e quella dell’Africa dell’Ovest mettono il restante e il 26 dicembre 2007 l’Africa lanciò il suo primo satellite, poi grazie alla tecnologia cinese e russa, a basso costo, ecco altri quattro satelliti nazionali (Sud Africa, Nigeria, Angola ed Algeria), ed ancora, nel 2010, un altro satellite continentale. Oggi grazie al sistema WiMax l’Africa può avere connessioni a bassissimo costo. Il piano di telecomunicazioni prevede inoltre per il 2020 la costruzione di un satellite completamente africano, realizzato in Algeria e dieci volte più economico di qualsiasi altro satellite.
I 30 miliardi di dollari libici congelati negli USA appartengono alla Banca centrale libica ed erano destinati al completamento di tre istituzioni: la Banca africana d’investimento, il Fondo monetario africano (FMA) e la Banca centrale africana, quest’ultima avrà la competenza ad emettere la prima moneta unica del continente, che sostituirà il franco francese, la valuta più usata in Africa. Ecco un primo motivo per cui la Francia ha interessi ad eliminare Gheddafi.
L’FMA (il suo capitale è composto da soldi algerini, libici, nigeriani, egiziani e sudafricani) dovrebbe sostituire l’FMI garantendo maggiore autonomia finanziaria al continente, il Fondo Monetario Internazionale infatti negli ultimi decenni ha imposto, in cambio di 25 miliardi di dollari di prestiti, privatizzazione a raffica.
Inoltre, Gheddafi dovrebbe prendere la guida dell’Unione Africana, una minaccia per l’Occidente che preferirebbe dialogare e commerciare con un’Africa separata, ecco quindi il tentativo francese, con la creazione dell’Unione per il Mediterraneo (2008) di staccare il Nord Africa dal resto del continente e vedere Parigi come l’interlocutore privilegiato, ma Gheddafi ha detto che l’Unione Africana si farà solo se vi aderiranno tutti i 27 paesi.
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lunedì 20 giugno 2011

Dotte, ma segregate

(fonte: Sette-Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

In Arabia Saudita, le donne non possono insegnare, non votano, non possono prendere la patente e non è concesso loro di uscire senza l’accompagnamento di un uomo. E questi sono solo alcuni dei divieti previsti dalla legge saudita. Eppure da qualche settimana le donne saudite potranno iscriversi ad una delle 15 facoltà del nuovissimo e sfarzoso campus universitario Princess Noura Abdulrahman di Riad: oltre 100 ettari di estensione, può ospitare 52 mila studenti, dispone di 32 laboratori, un ospedale ed i trasferimenti al suo interno sono garantiti da una metropolitana di 14 fermate. Un’altra particolarità di questo campus: è aperto solo ed esclusivamente alle donne, nessun uomo, oltre il personale docente e qualche impiegato, potrà frequentarlo, tanto meno studiarci.
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venerdì 17 giugno 2011

Economia e Diritto

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Nel suo ultimo intervento da Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, prossimo presidente della BCE, ha evidenziato come il sistema Italia sia in difficoltà anche per la lentezza della giustizia civile che ostacolerebbe lo sviluppo dell’imprenditoria italiana. L’economia del Bel Paese si caratterizza per un’alta concentrazione di piccole e piccolissime aziende, e la loro difficoltà di crescere da un punto di vista di numeri, operai ed impianti, e di sopravvivere nel confronto con la concorrenza internazionale dipenderebbe dalla scarsa propensione della banche ad erogare finanziamenti e prestiti, perché, data la lentezza con cui si concludono le cause civili (secondo la Banca Mondiale l’Italia è al 157 posto, su 183, nella classifica sui tempi lunghi della giustizia), gli istituti di credito sono restii a concedere soldi senza super ed ultra garanzie. Alberto Alesiana e Francesco Giavazzi, dalle pagine del Corriere della Sera hanno cercato di individuare, citando vari studi e ricerche perché la giustizia italiana sia così lenta. Perché la spesa giudiziaria è bassa? Secondo i dati del 2008 lo Stato italiano spende 70 euro per abitante per far funzionare il sistema giudiziario, in Francia si spendono 58 euro per abitante, in Francia i giudici sono 9 ogni 100.000 abitanti, in Italia 10, in Italia per ogni giudice vi sono 4 dipendenti del tribunale, in Francia sono, invece 3. I giudici italiani hanno uno stipendio del 20% maggiore dei loro colleghi francesi, eppure in Francia un causa civile dura la metà che da noi. I due analisti sul Corriere, dati alla mano, hanno individuato alcune cause della lentezza della nostra giustizia. Prima di tutto in Italia vi sono troppi avvocati, sono 200.000 (332 ogni 100.000 abitanti), in Francia sono 48.000, 76 ogni 100.000 abitanti, in Italia, ogni giudice ci sono 32,4 avvocati, in Francia il rapporto è di 1 a 8,2. Alesiana e Giavazzi auspicano quindi l’introduzione del numero chiuso nelle facoltà italiane di giurisprudenza. Anche la modalità con cui sono strutturate le parcelle italiane è un incentivo a tenere aperte a lungo le cause, mentre sarebbe auspicabile che anche in Italia, come da anni, invece, fanno in Germania, che gli avvocati fossero remunerati a forfait (gli avvocati tedeschi guadagnano di più di quelli italiani), oppure fossero liberalizzate. Infine sarebbe opportuna una migliore organizzazione del lavoro dei giudici. Ad esempio, invece di iniziare e portare avanti tutte le cause insieme, sarebbe preferibile non aprirne nuove fino a quando alcune non siano chiuse (rinvio alla lettura dei recenti lavori scientifici di tre economisti: Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico).
Infine una curiosità. Gli ostacoli ad intentare una causa spesso derivano dall’incapacità di prevedere i tempi in cui l’azione legale si completerà arrivando al giudizio. Non esiste infatti una previsione di conclusione della causa civile in Italia. Eppure, dati del Consiglio d’Europa, nel vecchio Continente esistono paesi in cui si possono fare previsioni, stime, più o meno precise, sulla durata di un processo. Questi paesi sono la Gran Bretagna, la Francia, la Finlandia, la Norvegia, la Lettonia e l’Albania. Qualcosa è previsto anche in Spagna. L’obbligo legale di comunicare i tempi precisi è previsto solo dalla legislazione giudiziaria del Nord Irlanda, mentre, nonostante non vi sia alcun obbligo, la giustizia inglese, scozzese e gallese danno, all’inizio di una causa civile, una previsione di durata.
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domenica 5 giugno 2011

Voci contestate

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

E’ prossimo ad uscire in Spagna il Dizionario biografico, un’operazione editoriale di 50 tomi, finanziata dallo Stato con 6 milioni di euro, edita dalla Real Accademia di Storia, con presentazione del re Juan Carlos e della regina Sofia e della ministra dell’Educazione, Angeles Sinde, ma è già al centro di feroci polemiche. Infatti ,alcune voci contenute nel Dizionario, che si riferiscono al regime franchista, sono piuttosto imbarazzanti. Alcuni esempi: Francisco Franco? Dittatore? No, autoritario, abile stratega per aver criticato l’inizio della guerra in Vietnam (contro il volere del popolo che manifesta con la guerriglia, nessun esercito, neanche quello USA, può vincere). Ed ancora, la guerra di Spagna non fu guerra civile innescata da un golpe, ma una “crociata dell’esercito nazionale” contro il “nemico” (i repubblicani) sconfitto nella “guerra di liberazione”. Infine gli oppositori al regime di Franco? Antifascisti? No, “banditi e terroristi”. Giudizi e commenti storici poco attinenti ai fatti e che mettono in cattiva luce il prestigio dell’Accademia. L’edizione è già stata stampata e difficilmente gli errori potranno essere rimediati, solo nella versione on line sono state rimosse l voci contestate. Intanto la stampa spagnola ha individuato gli studiosi che hanno composto queste voci, quella dedicata a Franco è stata curata al medievista Luis Suarez Fernandez che presiede la Fondazione Francisco Franco ed è stato direttore generale del ministero dell’Educazione nazionale sul finire del periodo franchista.
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sabato 4 giugno 2011

I gemelli di Candido Godoi

(fonte: Sette-Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Candido Godoi è una cittadina brasiliana del Rio Grande do Soul, lontano dagli itinerari del tradizionale turismo che ha due particolarità: l’80% della popolazione è di origine tedesca, l’altra, più sorprendente, l’alta percentuale di parti gemellari. Infatti nel mondo si verifica un parto gemellare ogni cento, a Candido Godoi, dagli anni Sessanta, invece, la percentuale di nascita di gemelli è uno ogni 5 parti, quindi altissima. Non solo, i gemelli nati sono in stragrande maggioranza, biondi e con gli occhi azzurri. Ad oggi non vi è una spiegazione scientifica di questo fenomeno, ma nel frattempo le autorità locali stanno sfruttando il fatto per promuovere la città, qui infatti ogni anno in febbraio si celebra la festa internazionale dei gemelli e si vendono ai turisti le bottigliette dell’Agua de Fertilidade di una fonte del luogo. Ma qualcosa si sta muovendo alla ricerca della verità. Il dottor Da Silva e lo storico giornalista argentino, Jorge Camarasa, hanno avanzato un’ipotesi. Negli anni in cui il fenomeno dei parti gemellari si è manifestato nella città brasiliana, era qui presente Joseph Mengele, il medico di Auschwitz, che aveva trovato rifugio in America Latina dopo la liberazione della Germania e la caduta del Reich. Infatti, Mengele ad Auschwitz aveva effettuato esperimenti genetici, con esiti sempre mortali, su 226 coppie di gemelli tra i due e gli otto anni. Lo scopo di questi esperimenti era quello di trovare il segreto per permettere alle donne tedesche di partorire gemelli per fornire così più soldati alla Germania e creare a tavolino la razza perfetta. Non vi è comunque, oggi, nessuna conferma del legame tra Mengele e l’alta percentuale di parti gemellari a Candido Godoi, ma solo terribili supposizioni.
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venerdì 3 giugno 2011

La sedi esotiche dell’UE

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

La Comunità Europea ha proprie sedi di rappresentanza alle isole Barbados (44 dipendenti, costo 5.886.666 euro), che cura i rapporti UE-Caraibi, ed alle Isole Figi (33 dipendenti, costo 3.146.930 euro), che invece si dedica all’area del Pacifico. Scelte di rappresentanza e susseguenti costi giudicati da alcuni europarlamentari fuori luogo ed eccessivi. L’UE ha 130 delegazioni, una sorta di ambasciate, che curano, presso il paese o la regione accreditate, gli interessi e la rappresentanza dei paesi comunitari, e sono sparse per il mondo, in sedi anche meno esotiche, ad esempio l’Afghanistan ed il Burkina Faso. Al centro delle critiche anche la nuovissima sede a Bruxelles dell’Eeas (il servizio si azione esterna europea), costo dell’affitto, 12 milioni di euro l’anno. Ma di cosa si sono occupate alcune delle sedi di rappresentanza al centro delle critiche? Quella delle Barbados, che opera anche per Antigua e Saint Lucia, ha celebrato la Festa dell’Europa, festa organizzata anche nel Pacifico, dalla sede di Figi, qui però i delegati comunitari si sono attivati anche per far accordare un contributo UE di 9 milioni per un piano per il mercato dei beni agricoli che coinvolgerà vari paesi della regione ed inoltre hanno inviato le congratulazioni al nuovo premier dell’isola di Niue.
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