mercoledì 27 aprile 2011

Domande

C’è un paese che da oltre quarant’anni è sotto la morsa di un governo dittatoriale, il suo leader ha finanziato (finanzia?) il terrorismo internazionale, la censura è totale, non vi sono diritti e libertà, da settimane alcune città sono insorte contro il despota, i manifestanti inneggiano alla democrazia, chiedono riforme, sviluppo, progresso e migliori condizioni di vita, vogliono che il dittatore se ne vada. Il regime ha risposto bombardando, le città ribelli sono accerchiate dall’esercito lealista, si contano centinaia di vittime tra i civili.
Gli insorti chiedono un aiuto che solo dall’estero può venire, guardano all’Occidente, agli USA, all’ONU………Non sto descrivendo la situazione attuale in Libia, ma in Siria. Perchè gli insorti siriani hanno meno diritto di essere aiutati di quelli libici? Dove sono le Nazioni Unite? Dov’è il sorriso rassicurante di Obama? Ed in particolare mi chiedo, dove sono gli aerei francesi e britannici? Sarkozy ha già recuperato nei sondaggi e quindi non ha bisogno di aprire un altro fronte in Siria?
RDF

martedì 26 aprile 2011

Non ci capisco più niente

A cura di Roberto Di Ferdinando

L’amor patrio mi avevo spinto a non scrivere questo post, ma poi, pensandoci bene, proprio l’amor patrio mi ha convinto, alla fine, di comporlo e pubblicarlo. Voglio parlare della posizione del nostro governo sul conflitto in Libia. Personalmente non ci capisco più niente. Andiamo per ordine, vediamo se qualcosa mi apparirà più chiaro.
Da oltre quarant’anni tutti i governi italiani si sono recati in Libia per rendere onore a Gheddafi o lo hanno accolto più o meno solennemente in Italia, prima i democristiani, poi i socialisti, e poi ancora quelli berlusconiani e così anche i governi di centro-sinistra anche se i membri di quest’ultimi, quasi a voler aumentare la già tanta confusione, oggi dimenticano di aver stretto più volte la mano del Colonnello ed accusano gli altri di averlo fatto (che si fa pur di vincere le elezioni). Tutti questi onori erano giustificati più o meno palesemente, secondo questi governi, dal fatto che l’Italia dipendeva, e dopo decenni ancora dipende, dalle risorse energetiche libiche, oltre al fatto che la Libia ha investito soldi nel mercato finanziario italiano e tale gesto è sempre stato molto apprezzato e riconosciuto.
Poi, da quando Sarkozy, in calo nei sondaggi per le prossime elezioni presidenziali, ha deciso di rifarsi un‘immagine attaccando la Libia, anticipando perfino l’ONU, ecco che per l’Italia è iniziata la crisi, la crisi di fare ciò che non pensava di fare. Berlusconi inizialmente ha posto la questione su un filo logico. L’Italia ha interessi forti con la Libia, perché attaccare Gheddafi, il nostro “figlio di puttana”? E così Berlusconi ha dimostrato molte perplessità sull’iniziativa militare, distaccandosi dall’entusiasmo militare francese e britannico. Invece Parigi e Londra subito hanno voluto mostrare muscoli e sganciare bombe sul rais, mentre anche gli USA un po’ si defilavano, perché ad Obama non piace fare il Comandante in capo, lui che è stato eletto, attribuendogli un ruolo di pacificatore-pacifista, in antitesi alla guerraiola amministrazione di Bush jr. Ma siccome il politicamente corretto vieta, oggi, ovviamente di difendere un dittatore, ma anche il non schierarsi apertamente contro di lui, ecco la soluzione machiavellica del Premier di Arcore: concedere le basi italiane all’alleanza dei Volenterosi, un supporto logistico all’operazione militare, qualche aereo per le ricognizioni, ma contemporaneamente non far cadere la linea diplomatica ed il dialogo con Tripoli per trovare una soluzione pacifica alla crisi libica senza alterare troppo lo status quo. Ma purtroppo il Governo italiano inizia ad incartarsi sulla linea politica da tenere, non confutando gli storici pregiudizi sui politici italiani quando c’è da guerreggiare. Berlusconi fa intendere, ma non si può dirlo ufficialmente, che il conflitto libico così come la caduta di Gheddafi è, e sarebbe, un problema (immigrazione e risorse energetiche) per gli interessi del Bel Paese. Ma Roma vorrebbe anche partecipare all’operazione ONU, stare nella sala dei bottoni. Un amletico dubbio esserci o non esserci? Da qui una serie di iniziative italiane che suscitano perplessità. Il ministro degli esteri libico, Kussa, aveva chiesto asilo al governo di Roma, ma quest’ultimo preoccupato di fare un torto all’amico (ancora amico od ex-amico?) Gheddafi, visto che ancora era forte ed avanzava contro i ribelli, prende e perde tempo, tanto che Kussa si rifugia a Londra dove adesso collabora con il governo di Cameron, e gli inglesi così hanno aumentato il proprio prestigio ed il proprio peso in un eventuale, se ci sarà mai, post-Gheddafi. L’Italia ha chiesto che le operazioni del conflitto libico passassero alla Nato, dimenticandosi però che così un coinvolgimento militare attivo italiano sarebbe stato più difficile negarlo, difatti ben presto gli alleati NATO hanno richiesto l’impegno effettivo dei bombardieri italiani. Ma al governo italiano non andava di impelagarsi in una guerra e quindi appoggia la proposta britannica: armiamo i ribelli! Non solo, riconosce anche ufficialmente, ed è tra i primi a farlo, il Consiglio temporaneo di Bengasi (il governo dei ribelli). Ma dieci giorni prima il ministro degli esteri Frattini aveva affermato che tutto questo era un gesto azzardato e pericoloso, appoggiandosi anche alle fonti dei servizi segreti USA che avevano denunciato il rischio di armare dei ribelli di cui ancora non sappiamo molto (ricordarsi dell’Afghanistan dei mujahidin), ma allora perché i bombardamenti NATO stanno palesemente aiutando i ribelli, perché stiamo (Occidente) parteggiando per una parte del conflitto di cui non sappiamo molto e non ci fidiamo fino in fondo?
Scartata, sembra, l’opportunità di armare i ribelli ecco la proposta occidentale di fornire a questi i servizi dei consiglieri militari, una sorta di addestramento militare. Gli USA pensano per tale funzione ai propri agenti CIA, già presenti sul territorio, lo stesso fanno Francia e Gran Bretagna. Anche l’Italia propone di inviarne dei suoi, ma niente partecipazione attiva in una guerra guerreggiata.
Intanto l’azione militare dei Volenterosi non sfonda, Gheddafi è sempre lì, al suo posto ed i ribelli non avanzano. Ecco quindi che oggi arriva la notizia che Berlusconi ha dato il via libera ai nostri aerei militari di intervenire, cioè sganciare bombe su obiettivi militari libici, se questo è richiesto dal comando NATO. Colpo di scena, il governo italiano vuole partecipare al conflitto e cacciare Gheddafi. Che cosa è successo? Determinante, non credo le insistenti richieste del presidente Napolitano che da giorni auspicava che l’Italia rispettasse i suoi impegni NATO, ma invece le pressioni di Francia e Gran Bretagna prima e degli USA ieri sera, per un maggior coinvolgimento militare dell’Italia. Berlusconi sentendosi lusingato e poco incline a dire no quando gli USA chiamano, ha scelto il via libera ai nostri aerei sulla Libia. Un mese fa il nostro Presidente del Consiglio disse che era impensabile che nostri aerei potessero sorvolare e bombardare la Libia dopo che noi l'avevamo colonizzata, sarebbe stato uno spregio ai recenti accordi ed al buon vicinato. Dimenticato tutto. Si dice che la Francia abbia messo sul piatto maggior collaborazione nella gestione dell’emergenza immigrazione e l’appoggio di Parigi alla nomina di Draghi alla Banca Europea (in pratica un piatto di lenticchie, con la Triplice Alleanza ottenemmo almeno le terre irridente completando l’unificazione).
La confusione non finisce qui. Infatti da oltre un mese ai nostri confini c’è una vera guerra che si combatte, su mandato dell’ONU, con gli USA presenti, contro uno stato sovrano, gli stessi aspetti presenti già negli attacchi all’Afghanistan ed all’Irak negli anni passati. Allora però l’opinione pubblica scese in piazza a manifestare contro la guerra del sanguinario Bush, oggi, invece sembra che di questo conflitto non interessi niente a nessuno, oppure che Obama garantisca sull’umanità del conflitto. Risultato, nessuna bandiera della pace alle finestre.
Ed ancora, in Italia vi è un paradosso, difatti la sinistra democratica critica il governo di non aver scelto prima di affiancare i Volenterosi nelle azioni militari, mentre la Lega, forza di governo, che aveva votato a favore dell’intervento italiano nelle precedenti missioni militari all’estero, adesso si è schierata compattamente contro l’impiego della nostra aeronautica in Libia. Confusione totale, la mia ovviamente.
In queste ultime ore però mi sono ricordato di alcuni avvenimenti storici della nostra politica: alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale l’Italia era alleata con gli imperi centrali (Austia-Ungheria e Germania), la svolgemmo e la finimmo invece al fianco di francesi ed inglesi; allo scoppio del secondo conflitto mondiale inventammo la non belligeranza (la neutralità era poco fascista) per poi scioglierla quando la Francia era in ginocchio; dopo l’8 settembre 1943 scegliemmo la cobelligeranza, cioè lasciammo i tedeschi per gli Alleati che però non ci vollero subito, aspettarono, ci misero in quarantena poi quando gli servimmo e constatata la fedeltà dei nostri politici, ci vollero al loro fianco. In passato tra i nostri detrattori si aggirava una battuta: “Stai attento con l’Italia perché si sa con chi inizia una guerra ma mai con chi la finisce”. Forse Gheddafi non lo sapeva, Berlusconi sì. Viva l’Italia.
RDF

domenica 24 aprile 2011

Marlene Dietrich voleva uccidere Hitler

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Sarebbero stati 43 gli attentati, poi falliti, per uccidere Adolf Hitler. Fino ad oggi ne avevamo la conoscenza di almeno 42, tra cui i più noti quello organizzato da Georg Elser al Burgerbraukeller di Monaco e quello del 1944 condotto dal colonnello Von Stauffenberg al Rastenburg (dai cui il film Valchiria interpretato da Tom Cruise). Da pochi giorni è stato rivelata la notizia che un altro attentato alla vita del Fuhrer fu tramato. A rendere la notizia sensazionale, dopo oltre sessant’anni, è il nome di chi progettò tale assassinio, l’attrice tedesca, Marlene Dietrich. A rivelarlo la famosa biografa dei divi, la statunitense, Charlotte Chandler, che nel suo ultimo libro, prossimo ad uscire in vendita, “Marlene- Marlene Dietrich, a personal biography”, racconta l’intervista a Douglas Fairbanks Jr., amante della Dietrich negli anni del secondo conflitto mondiale, in cui le parlò del piano dell’Angelo Azzurro per uccidere Hitler. La Dietrich si era trasferita da anni negli USA,e nel 1939 ne era diventata cittadina e da qui aveva manifestato tutta la sua opposizione al regime nazista tale da sentirsi spinta ad organizzare l’attentato al Fuhrer. Secondo il racconto di Fairbanks, morto nel 2000, la Dietrich avrebbe preso contatti con Goebbels, ministro della propaganda e curatore del cinema tedesco, per proporgli un rientro in patria, e continuare in Germania la sua carriera cinematografica, purché avesse un incontro personale con Hitler; una volta a faccia a faccia con il dittatore tedesco, lo avrebbe sedotto e quindi avvelenarlo. Tale progetto, però rimase semplicemente un'idea.
RDF

sabato 23 aprile 2011

Cuba: la dittatura dei novantenni

(fonte: Corriere della Sera) a cura di Roberto Di Ferdinando

Nel recente 6° Congresso del Partito Comunista Cubano (PCC), il primo dopo 14 anni, i dirigenti del partito hanno stabilito nuove regole per le cariche elettive statali e del partito stesso, difatti non potranno durare per più di dieci anni. A capo del PCC oggi vi è Raul Castro, fratello di Fidel, che lo sostituisce da tre anni, quando il Leader Maximo si dimise per problemi di salute. Raul ha 80 anni e quindi potrà stare in sella al partito e guidare il paese, dietro le indicazioni del fratello Fidel (84 anni), per ancora dieci anni, cioè quando sarà novantenne; se invece la regola sarà retroattiva, e quindi saranno scalati i tre anni già trascorsi, Raul rimarrà in carica fino a 2018, cioè fino ad 87 anni. Se Raul dovesse dimettersi nei prossimi anni, lo sostituirebbero, salvo indicazioni diverse di Fidel, José Ramòn Machado, 80 anni, Primo vicepresidente del partito e, terzo nella linea di successione, Ramiro Valdés, 79 anni, Secondo Vicepresidente, che rimarrebbero al potere per ulteriori 10 anni, oltrepassando i novant’anni di età. Una dittatura della quarta età. La sensazione, non molto celata è che i protagonisti della rivoluzione cubana non vogliano lasciare la guida (il potere) del paese che hanno creato. Difatti, non esiste una nuova generazione di leader pronta a sostituire i vecchi barbudos, o meglio, non è mai stato consentito che alcuni giovani politici potessero uscire allo scoperto; nel 2009, Carlos Lage e Felipe Pérez Roque, designati quali delfini di Fidel, furono esautorati ed i “vecchi” ripresero la guida del partito e del paese.
Il proseguimento dei lavori del Congresso si è svolto a porte chiuse, i risultati trascurabili: il socialismo a partito unico rimane inamovibile, le aperture all’iniziativa privata minime e poi si è parlato di molta economia, teorica ovviamente.
RDF

La nuova frontiera dell'era digitale: l'Africa

La notizia ce la dà Internazionale. Nei prossimi giorni è annunciata la fine dei lavori del West Africa cable system (Wacs), un cavo sottomarino lungo quattordicimila chilometri da Londra al Sudafrica. I nodi saranno: Sesimbra (Portogallo), Altavista (Isole Canarie), Abidjan (Costa d'Avorio), Accra (Ghana), Lomè (Togo), Lagos (Nigeria), Douala (Camerun), Pointe Noir (Congo), Mtuanda (RDC), Luanda (Angola), Swakopmund (Namibia), Yzerfontein (Sudafrica). Il Wacs, secondo The New Age, porterà la banda larga in questi undici paesi lanciando alcune zone del continente nell'era digitale. Oggi solo il 10 per cento degli africani usa regolarmente internet, contro un tasso del 65 per cento tra gli europei. Il progetto, di cui la sudafricana Mtn Group è il principale investitore, è costato 650 milioni di dollari. Fonte: Internazionale n. 894. Francesco Della Lunga

martedì 19 aprile 2011

Draghi: ripresa, ma attenzione al caro-cibo

(Fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel suo discorso al Development Committee della Banca Mondiale, domenica scorsa, ha evidenziato come si debba guardare al futuro, anche prossimo, con maggiore fiducia, difatti le previsioni economiche sembrerebbero migliorare, in particolare nelle economie dei paesi in via di sviluppo. Ciò non vuol dire che siamo fuori dalla crisi o che il peggio è passato, ma che comunque ci deve essere, dati alla mano, più fiducia e, sinceramente, questa è una buona notizia. Ma Draghi invita tutti i soggetti coinvolti nel governo delle economie nazionali ed internazionali a non sfuggire un problema che potrebbe rendere vani gli sforzi per uscire dalla crisi. Il Governatore ha denunciato difatti come pericoloso il fenomeno dell’eccessivo rincaro dei prezzi dei prodotti alimentari che sta causando ancor più poveri in ampie regioni dell’Africa e dell’Asia. “Troppe persone specialmente in Africa soffrono ancora di estrema povertà e di mancanza di accesso all’acqua, alla scuola ed ai servizi sanitari di base, […] “ queste le parole di Draghi (tratte dal Corriere della Sera del 18 aprile) che ha aggiunto che i prezzi agricoli sono in crescita dal 2006 e quelli alimentari dalla fine del 2010 tanto che le stime della Banca Mondiale indicano come in pochi mesi quasi 44 milioni di persone sono diventate povere (possono disporre solo di meno di 1,25 dollaro al giorno), in particolare in Pakistan, Belize, Tajikistan, Bangladesh, Belize, Zambia, Uganda e Sri Lanka. Draghi ha suggerito anche delle strategie per porre rimedio a ciò: buoni servizi scolastici e sanitari, potenziamento delle reti di energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni e collaborazione della Banca Mondiale con i paesi del Medio Oriente e Nord Africa.
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lunedì 18 aprile 2011

Gli USA non si inchinano

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Questa mattina i mass media hanno raccontato ed illustrato la visita della segreteria di Stato, Hilary Clinton, in Giappone, evidenziando come l’alta rappresentante statunitense al di fuori di ogni protocollo abbia dato la mano all’Imperatore Akihito, senza effettuare il doveroso inchino, come invece pretenderebbe il cerimoniale. La Clinton è anche andata oltre, difatti, abbracciando e baciando sulle guance la consorte imperiale, Michiko. Nessun incidente diplomatico, nessuno sgarbo, l’informalità, comunque rispettosa, della Clinton è stata interpretata dagli analisti, come un gesto di distensione tra i due paese, dopo che negli ultimi anni una certa tensione, neanche celata, era sorta tra i due paesi. Anzi, la Clinton ha confermato nella visita di ieri che gli USA continueranno nella loro operazione di aiuto al Giappone, colpito dal micidiale terremoto-tsunami di marzo. Difatti circa 20.000 dei 47.000 militari USA presenti nel paese del Sol Levante continueranno l’operazione “Tomodachi” (amico) nell’affiancare i tecnici e gli operai giapponesi per riportare il Giappone alla normalità. Mentre tecnici e genieri militari statunitensi hanno collaborato con le autorità locali nella gestione dell’incidente di Fukushima e nella riapertura dell’aeroporto di Sendai. La Clinton ed il ministro Matsumoto hanno, inoltre, annunciato una collaborazione economica e finanziaria per favorire investimenti USA in Giappone. Iniziative che riaprono il dialogo tra Washington e Tokyo, incrinato nel 2009 quando la vittoria elettorale del partito democratico di Yukio Hatoyama aveva annunciato la messa in discussione dell’”alleanza” regionale con gli USA, ed aveva chiesto agli americani di ritirare le proprie truppe dalla base di Okinawa. Allora il Presidente Obama, in visita ufficiale a Tokyo per tastare di persona il polso all’alleato incerto e dubbioso, diede la mano e si inchinò, forse troppo a giudizio dei repubblicani americani, all’Imperatore Akihito.
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martedì 12 aprile 2011

L’ingiustizia è fatta

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Jovan Divjak è un nome noto a pochissimi, anche nel proprio paese, la Serbia. Nelle settimane scorse questo nominativo è apparso sui quotidiani di mezzo mondo, però, la notizia del suo arresto è rimasta quasi nascosta tra i mille articoli, giustamente dedicati prima alla Libia, poi al Giappone ed ancora alla Libia. L’arresto di Divjak invece avrebbe meritato maggior risalto mediatico, perché dimostra la condizione del nostro mondo. Jovan Divjak, oggi ritirato a vita privata, era un generale serbo, che durante la guerra dei Balcani, con l’esercito federale jugoslavo in dissoluzione, decise di stare dalla parte bosniaca difendendo Sarajevo, dove fino ad allora aveva prestato servizio e che in quei giorni era bombardata da un altro generale serbo, Radko Mladic. Per Belgrado quindi un traditore, dimenticandosi che Divjak garantì e tutelò, nella Sarajevo bombardata e multiculturale, la minoranza serba-bosniaca, si oppose ad una estremizzazione religiosa delle gerarchie politiche di Sarajevo e criticò la loro strategia difensiva dell’enclave bosniaca che non evitò, difatti, l’eccidio di Srebrenica. Fu una mente lucida ed umana in un delirio di violenze ed odio e pertanto man mano emarginato. Il “serbo buono”, così fu definito in quegli anni Divjak, che aveva messo a rischio tutto ciò che aveva, considerato in patria un traditore ed in Bosnia una figura ingombrante, fu costretto a ritirarsi ed a dedicarsi, come aveva fatto da militare, agli altri. Finito il conflitto avviò e curò progetti umanitari permettendo agli orfani di guerra, di qualsiasi cultura, di avere una formazione, anche universitaria. Il governo di Belgrado lo ha fatto arrestare alcune settimane fa a Vienna, dove viveva liberamente, senza nascondersi e svolgeva la sua attività umanitaria . L’accusa è di aver causato la morte di quaranta soldati serbi durante un operazione di guerra. Curioso che il governo serbo non sia ancora riuscito ad arrestare Radko Mladic, il massacratore di Srebrenica, accusato, da tribunali internazionali di crimini contro l’umanità e che probabilmente vive nascosto proprio a Belgrado. Un mondo strano, capovolto, il nostro.
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mercoledì 6 aprile 2011

La Rinascita Africana

(fonte: IoDonna-Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Il XIII summit dell’Unione Africana (2010) ha deciso di ufficializzare il 3 aprile come la giornata dell’African Cultural Renaissance (Rinascimento Culturale Africano), volendo così creare una sola voce per il continente nei settori della politica e del commercio, traendo ispirazione dalla Carta africana per la Cultura del Rinascimento, lanciata nel 2006. Quest’anno la giornata è stata dedicata agli studi ed alla promozione della cultura e delle lingue locali, in particolare nelle scuole. (http://www.africa-union.org/root/au/documents/treaties/text/Charter%20-%20African%20Cultural%20Renaissance_EN.pdf)
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lunedì 4 aprile 2011

La CIA è in Libia

(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

Nei giorni scorsi il presidente USA, Barak Obama, ha autorizzato la CIA ha svolgere operazioni in Libia. L’intelligence statunitense potrà compiere raid con i suoi corpi speciali ed aiutare gli insorti: distruggere obiettivi particolari (depositi armi chimiche), segnalare e guidare gli attacchi aerei, colpire i membri del regime di Tripoli. Si ritiene che fin dall’inizio delle operazioni militari in Libia, i “cavernicoli” USA, così sono soprannominati gli agenti paramilitari affiliati ai servizi segreti, siano presenti in Cirenaica, ed operino a fianco dei reparti speciali inglesi e francesi. Alcuni analisti vedono in questa autorizzazione il primo passo per fornire di armamenti gli insorti, visto la loro difficoltà ad avanzare, nonostante l’aiuto dei bombardieri NATO. Eppure, la sensazione è che Obama si sia ritrovato coinvolto in una guerra, a cui non voleva partecipare e stia cercando di limitare l’impegno bellico. Forse ha ceduto alle pressioni del suo segretario di stato, Hillary Clinton (come scrive l’ambasciatore Sergio Romano), e di Samantha Power, assistente della Clinton, specializzata in interventi militari-umanitari ed esponente della corrente interventista dei democratici. Il presidente è anche scettico sull’opportunità di armare i ribelli di cui difatti non si sa molto (per diversi motivi Cina, Russia, Belgio, Italia, Norvegia e l’Unione Africana sono contrari alla consegna di armi agli insorti). La CIA ha consigliato il presidente di non armare, nel breve periodo, i ribelli, per evitare un nuovo Afghanistan, dove infatti negli anni Ottanta gli USA armarono i mujaheddin contro l’invasore russo, ma quelle armi poi passarono ad Al Qaeda. Basti pensare che la CIA ha segnalato al Congresso di una presenza simbolica in Libia di Al-Qaeda, mentre il Ciad ha reso pubblico che terroristi algerini avrebbero sottratto dall’arsenale libico missili anti-aerei. Obama ha così mandato i suoi 007 in Libia per avere una più chiara situazione senza evitare gli errori del passato.
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sabato 2 aprile 2011

Un continente armato

Aumentano le spese in armamenti nel continente asiatico. La Cina si arma e preoccupa.
(fonte: Corriere della Sera), a cura di Roberto Di Ferdinando

La Cina, come da abitudine da decenni, continua il suo riarmo, anche come strumento di pressione politica nei confronti dei paesi vicini e dell’Occidente. In Asia si corre quindi ai ripari, e quasi tutti i paesi della regione hanno aumentato le spese per ammodernare e potenziare i loro eserciti. Ma la Cina fa ancora paura. Nei mesi scorsi il governo di Taiwan (dal 1949 in conflitto non belligerante con Pechino che ne rivendica la sovranità), ha denunciato la Cina di spionaggio, accusando il generale Lo Hsien ed altri dieci infiltrati di aver trasmesso informazioni ai cugini cinesi pregiudicando così, irrimediabilmente, il sistema di sicurezza nazionale. L’India ha reso pubblici gli sconfinamenti di truppe cinesi in Kashmir, mentre il Giappone, nel dicembre scorso, preoccupato delle sempre più agguerrite provocazioni della Corea del Nord e della Cina, ha deciso di modificare la sua strategia difensiva, rivedendo la sua legislazione pacifista. Sembrano che tutti si stiano preparando al peggio. Difatti la Cina preoccupa, non solo i vicini non amici, ma anche i lontani “rivali”, fra tutti gli USA, che stanno tenendo sotto osservazione il dinamismo militare della Cina. Pechino infatti ha speso per la “difesa” 81,1 miliardi di dollari nel 2010 (negli ultimi 10 anni il budget militare cinese è aumentato del 358%!!!!). Possiede 160 testate nucleari ed oltre 60 sottomarini, sta progettato il jet da combattimento invisibile ed a breve disporrà della prima portaerei, quindi potrà agire anche fuori dai tradizionali scenari asiatici, dato anche l’aumento della gittata del missile balistico antinave Donfeng 21D. Questi dati hanno fatto da traino per la regione. Infatti, l’India, negli ultimi dieci anni ha aumentato la spesa militare del 151%, spendendo 32 miliardi di dollari per il budget del 2010, investiti nell’ammodernamento delle proprie forze armate, grazie alla consulenza francese; ed ancora, la Corea del Sud ha rivisto, in aumento, il piano di riarmo del 2006 (che prevedeva 550 miliardi di dollari per 10 anni (+116%), l’Australia ha messo in previsione la spesa di 280 miliardi di dollari per il prossimo decennio (+84%), il Vietnam ha messo a bilancio per il riarmo 2,7 miliardi di dollari nel 2010, ed anche i piccoli stati si stanno muovendo nella stessa direzione come la Malaysia e Singapore, quest’ultimo ha speso nel 2010 nove miliardi di dollari. Ad aumentare la preoccupazione per questi numeri, vi sono le tante tensioni che tutt’oggi esistono nella regione: India-Cina per la contesa di zone di confine (Arunachal Pradesh), inoltre la tecnologia cinese collabora alla costruzione di infrastrutture, oltre a strappare importanti accordi commerciali nei e con i paesi confinati all’India, che si sente così circondata. Il conflitto Cina-Taiwan, tra le due Coree, la contesa delle isole: Kurili (Russia-Giappone), Senkaku/Diaoyu (Cina-Giappone) e Spratly e Parecel (Cina-Vietnam), infine le tensioni tra Vietnam e Cina in seguito alla disponibilità vietnamita di concedere all’ex nemico USA il porto di Cam Rahn quale base navale militare. Tensioni e riarmo, un connubio micidiale
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