mercoledì 24 marzo 2010

Notizie dal Somaliland: lo scellino somalo ancora in circolazione. A cura di Francesco Della Lunga






Non è un pericoloso terrorista, ma quello che rimane della divisa ufficiale della vecchia repubblica somala, in circolazione nel martoriato paese unificato e tuttora utilizzata nel Somaliland. I nostri lettori certamente sanno che la Somalia è uno stato “fallito” nel senso che, in seguito alla guerra civile scoppiata all’indomani della cacciata dell’ultimo dittatore, Mohamed Siyad Barre nel lontano 1990, l’ex colonia italiana ha visto dissolversi quelle poche istituzioni che erano state costruite e che facevano di Mogadiscio una città unica nel suo genere. Da allora ci sono stati numerosi tentativi di riportare il paese ad una vita civile, ma tutti naufragati nel nulla. Molteplici sono state le conferenze convocate dalle istituzioni internazionali, primo fra tutti l’ONU, l’IGAD, l’Unione Africana in tempi più recenti. Negli ultimi anni si sperava che il paese potesse avviarsi verso la riconciliazione e la ricostruzione. Ma la pacificazione e la ricostruzione è ancora assai lontana. Dopo la ricostituzione del Governo di Transizione Somalo, inizialmente stabilitosi in Kenia, a Nairobi, per ragioni di sicurezza fra il 2006 ed il 2007, i principali signori della guerra, rappresentanti dei vari clan che governano la Somalia centrale, erano riusciti a tornare a Mogadiscio alla fine del 2006, cacciando le “Corti islamiche”. Il governo delle Corti, che secondo molti osservatori era riuscito anche a riportare un minimo di quiete fra la popolazione e permettere la ripresa dei commerci e della vita civile, era stato cacciato grazie all’intervento delle truppe di Addis Abeba, arrivate con il “cappello” della comunità internazionale e soprattutto dell’allora capo del Governo di Transizione, Mohamed Mohalim Gedi. Ma il Governo di Transizione, che aveva recuperato il controllo di alcune parti della città, non è mai riuscito realmente ad affermarsi in questi due anni. Le fazioni che si fronteggiano nell’universo somalo sono ancora in lotta e soprattutto non sono disponibili a riconoscere il Governo di Transizione. Dopo le Corti Islamiche poi, sono arrivati altri gruppi di fondamentalisti, vicini ad Al Quaida, gli Al Shabab. Il caos regna ancora sovrano a Mogadiscio. Ma che ne è del resto della Somalia? In fondo siamo andati diretti a parlare della vecchia capitale del paese unificato dopo la decolonizzazione, ma non di altre due regioni, altrettanto importanti, che da tempo hanno proclamato la loro indipendenza da Mogadiscio. Si tratta del Puntland, un tempo governato da Abdullahi Yousuf Ahmed, diventato anche recentemente Presidente della Somalia riunificata, dopo accordi estenuanti fra le varie fazioni e dimessosi solo recentemente per favorire, sembra, l’improbabile riconciliazione (Abdullahi Yousuf Ahmed, padrone del Puntland è stato accusato da alcune ONG e da fazioni rivali, di aver sterminato oppositori politici appartenenti a clan rivali) e del Somaliland. La situazione di quest’ultima regione, la vecchia Somalia Britannica, appare assai curiosa: la regione, che ha da tempo, ancor prima del Puntland proclamato la propria indipendenza, vive in una fase di apparente pacificazione. Gli ultimi scontri risalgono alla guerra con l’Etiopia, ma poi la regione che si affaccia sul Golfo di Aden, forse perché dimenticata dal resto del mondo, sembra vivere una relativa quiete. La principale città, Hargheisa, che ne è anche la capitale, è certamente un luogo quasi misterioso ed ai più sconosciuto, tuttavia non è impossibile raggiungerla e visitarla. Recentemente, un nostro amico, studioso di preistoria e laureato all’Università di Firenze, è stato ad Hargheisa alla guida di una spedizione scientifica, volta alla ricerca di antiche pitture rupestri. Ci ha raccontato che cosa è Hargheisa e come è possibile raggiungerla. E le sorprese, non sono poche. Prima fra tutte la sopravvivenza del vecchio scellino somalo e … di altre conoscenze.

Luca Bachechi, studioso di preistoria e protostoria dell’Università di Firenze, ci racconta il suo viaggio ad Hargheisa, capitale del Somaliland, a dicembre 2009 (tutte le foto ci sono state gentilmente concesse da Luca Bachechi)
RI (Recinto Internazionale): Caro Luca, ci racconti un po’ del tuo viaggio ad Hargheisa? Come si arriva nella capitale del Somaliland?
LB: Ad Hargheisa, anche se può sembrare incredibile, si può arrivare facilmente con regolari voli di linea che la collegano a Gibuti e ad Addis Abeba. In città ci sono molti alberghi, anche se pochissimi sono quelli che ricordano uno standard occidentale, però sono difficilmente prenotabili dall’estero. È consigliabile procurarsi un accompagnatore (anche perché quasi nessuno parla l’inglese o una lingua facilmente comprensibile da noi europei). Non mi chiedere però come trovare un accompagnatore: non esistono agenzie turistiche e, come sempre in questi casi, ci si deve fidare delle proprie sensazioni scegliendo e mettendosi d’accordo con una delle tante persone che si offrono di farti da guida. Un po’ più complicato è raggiunge Hargheisa via terra: il paese di confine che si trova provenendo dall’Etiopia si chiama Wuchale ed è un vero e proprio porto franco dove, oltre ad articoli particolari (armi, autovetture di dubbia provenienza, ecc.) si può acquistare, a prezzi incredibilmente bassi, ogni genere di oggetto elettronico proveniente dalla Cina. Per raggiungere Wuchale si deve passare per Harar, importante città dell’est etiopico, e poi percorrere, attraversando Jiggiga, circa 200 km di “strada(?!)” in circa 6 ore. Arrivati a Wuchale occorre lasciare la vettura etiope e disbrigare le pratiche per l’attraversamento di frontiera (per entrare nel paese bisogna essere in possesso di un visto che viene rilasciato, tra mille difficoltà amministrative, dalle legazioni diplomatiche del Somaliland presenti ad Addis Abeba o a Gibuti). Si devono poi attraversare a piedi un centinaio di metri di terra di nessuno e, passato l’esame dei doganieri del Somaliland, si deve pensare a trovare una vettura somala. L’offerta è molto varia, sia nel prezzo che nelle condizioni delle vetture, ma la cosa fondamentale è quella di riuscire a trovare un autista cha sappia parlare almeno qualche parola di inglese. Risolto il problema vettura si può partire alla volta di Hargheisa: ci aspettano circa 90 km dei quali i primi 20 sono costituiti da una semplice pista di sabbia e i rimanenti da un nastro asfaltato in pessime condizioni. Ogni 10 km circa si incrociano dei check-point militari presso i quali avviene il controllo dei documenti e, se il chat (la droga locale) non ha alterato troppo le facoltà mentali dei controllori, ogni volta tutto si risolve con una sosta di poco più di mezz’ora . Si arriva così a destinazione, dopo un viaggio durato più di un giorno per percorrere gli scarsi 300 km che dividono Harar da Hargheisa. Naturalmente tutto ciò si ripete, al contrario, una volta che dobbiamo rientrare in Etiopia. In questo caso dobbiamo preventivamente ottenere un visto dall’Ambasciata etiope in Hargheisa.

RI: In questi paesi capita spesso di trovare dei soggetti, identificati come “poliziotti” che viaggiano sui “pick up” armati di Kalashnikov ed armi di vario tipo. Che sensazione si ha? Si corre il rischio di sparire da qualche parte? Ci si può fidare di queste persone o non abbiamo alternative?
LB: Il primo approccio non è piacevole, si ha proprio la sensazione di essere in balia della volontà di quelle persone che, tra l’altro, sono sistematicamente sotto l’effetto del chat. In realtà poi ci si rende conto che da parte delle autorità locali esiste una certa preoccupazione rivolta a salvaguardare l’incolumità dei pochi visitatori stranieri.
RI: Che “clima politico” si avverte ad Hargheisa? Si notano tracce dei conflitti passati?
LB: Il “clima” è buono, tutto sembra apparentemente tranquillo e sempre apparentemente il governo pare controllare ogni angolo del paese. L’unica traccia visibile dei passati conflitti è costituita dalla carcassa di un Mig che, approntato a monumento, fa bella figura nella piazza principale della città. Il monumento vuole ricordare l’unico successo bellico (l’ abbattimento di una aereo nemico) avvenuto durante la guerra con la Repubblica Somala (quella di Mogadiscio).
RI: Qual è la moneta in vigore nel paese?
LB: Lo scellino somalo, antica reminescenza del controllo inglese. Le banconote in circolazione sono unicamente quelle da 500 scellini che valgono all’incirca 0,025 centesimi di Euro: ce ne vogliono 40 per fare un euro: immaginatevi i pacchi di banconote che occorrono per effettuare i pagamenti!

RI: I rapporti con l’Etiopia sono buoni?
LB: Per il momento sì, ma ben sappiamo che in quelle aree si passa presto dall’amicizia all’odio.
RI: In definitiva: che cosa spinge il viaggiatore a venire in queste aree ormai marginali ma indubbiamente affascinanti dell’Africa Orientale?
LB: L’avventura e la ricerca dell’ebbrezza legata al pericolo sempre presente. No, scherzo, in realtà sono terre ricche di storia, dei veri e propri crocevia di antiche civiltà che ancora celano gran parte dei loro “tesori”; paesi dove gli archeologi possono vedere realizzati tutti i loro più reconditi desideri, ma anche il semplice turista culturale può trovarvi grandi stimoli e provare considerevoli emozioni. Non è una terra consigliabile a chi cerca divertimenti e relax. La città di Hargheisa in particolare, seppure riunisca più di 90.000 abitanti, non offre nessuna attività di svago, neppure un cinema.

RI: Come sono andate le tue ricerche?
LB: Bene, molto bene. In Etiopia abbiamo individuato e documentato ben 18 nuovi (del tutto sconosciuti) siti con arte rupestre preistorica; in Somalia ho potuto visitare una delle località più affascinanti del mondo per quanto riguarda l’arte preistorica: Las Geel. Cercate questo nome su internet e vi renderete conto della bellezza del luogo. Inoltre ho incontrato le massime autorità dello Stato con le quali ci siamo fatti solenni promesse di reciproche collaborazioni future relative a ricerche archeologiche. In sintesi il giudizio finale è: viaggio indimenticabile, veramente consigliato, ma solo a chi possiede molto spirito di adattamento e una grande pazienza.


Articolo a cura di Francesco Della Lunga
Tutte le foto sono di Luca Bachechi

lunedì 1 marzo 2010

25 consigli per vivere bene

Il ministro degli esteri della Bolivia suggerisce 25 consigli per “Vivere bene”
Dal giornale LA RAZON, LA PAZ.-
http://www.la- razon.com/ versiones/ 20100131_ 006989/nota_ 247_946416. htm

"In un’intervista, il ministro delle Relazioni Estere, David Choquehuanca, esperto in Cosmovisione Andina, spiega in dettaglio un nuovo paradigma in cui situa la vita e la natura come asse centrale dell’esistenza.
Il Vivere Bene, il modello che desidera implementare il governo di Evo Morales, si può riassumere come il vivere in armonia con la natura, definizione che riprende i principi ancestrali delle culture della regione. Esse considerano che l’essere umano si trova in secondo piano al medio ambiente.
Il cancelliere David Choquehuanca studioso di questo modello ed un rappresentante Aymaras, esperto in cosmovisione andina, conversarono con il giornale LA RAZÓN per un’ora e mezza e spiegarono i dettagli dei principi riconosciuti nell’articolo 8 della Constitución Política del Estado (CPE) .
“Vogliamo ritornarne a Vivere Bene, il che significa che ora iniziamo a valorizzare la nostra storia, la nostra musica, i nostri abiti, la nostra cultura, il nostro idioma, le nostre risorse naturali, e oltre a dar valore a tutto questo abbiamo deciso di recuperare tutto ciò che è nostro, tornare ad essere quel che siamo stati”.
L’articolo 8 della CPE stabilisce che: “ Lo Stato assume e promuove come principi etici-morali della società plurale: ama qhilla, ama llulla, ama suwa ( non essere pigri, non essere bugiardi, non rubare), suma qamaña ( vivere bene), ñandereko (vita armoniosa), teko kavi (vita buona), ivi maraei (terra senza male) e qhapaj ñan (cammino alla vita nobile).
Il Cancelliere ha rimarcato la sua distanza dal socialismo e ancora di più dal capitalismo. Il primo lo definisce come pura ricerca della soddisfazione delle necessità dell’uomo, mentre asserisce che per il secondo la cosa più importante è il denaro e la plusvalenza.
Secondo D. Choquehuanca, il Vivere Bene è un processo che inizia ora e che a poco a poco si divulgherà.
“Per coloro che appartengono alla cultura della vita la cosa più importante non è il denaro né l’oro, né l’uomo, poiché egli si trova all’ultimo posto. La cosa più importante sono i fiumi, l’aria, le montagne, le stelle, le formiche, le farfalle(..) . L’uomo è all’ultimo posto. Per noi la cosa più importante è la vita.”.
Le culture Aymara • Anticamente coloro che popolavano le comunità Aymaras in Bolivia aspiravano a diventare qamiris (persone che vivono bene).
I Quechuas • Ugualmente le persone di questa cultura anelavano diventare un qhapaj (gente che vive bene). Un benessere che non è quello economico.
I Guaraníes • Il guaraní sempre aspira di diventare una persona che si muove in armonia con la natura, ossia che spera un giorno diventare un yambae.
Il Vivere Bene dà priorità alla natura e non all'essere umano.
Queste sono le caratteristiche che poco a poco si implementeranno nel nuovo Stato Plurinazionale:

Dare priorità alla vita -
Vivere bene è ricercare la vita in comunità dove tutti gli integranti si preoccupino per tutti. La cosa più importante non è l'essere umano (come definisce il socialismo), né il denaro (come precisa il capitalismo), bensì la vita. Esso richiede implementare una vita più semplice.
Il cammino è quello di creare armonia tra tutte le forme di vita, con l’obiettivo di salvare il pianeta dalle priorità dell’umanità.
Giungere ad accordi attraverso il consenso –
Vivere bene significa cercare il consenso tra tutti. Questo implica che a prescindere dalle differenze, quando le persone dialogano si può arrivare ad un punto neutrale, in cui tutti possono riconoscersi e dove non si provocano conflitti. “ Non siamo contro la democrazia, quel che desideriamo è approfondirla, perché oggi la democrazia include la sottomissione, e sottomettere il prossimo non è “Vivere bene” chiarificò il Cancelliere David Choquehuanca.
Rispettare le differenze –
“Vivere bene” significa rispettare l’altro, saper ascoltare chiunque desideri parlare, senza discriminazione o sottomissione. Non si parla di tolleranza ma di rispetto; per Vivere Bene e in armonia è necessario rispettare le differenze, anche se ogni cultura, o regione, ha una forma diversa di pensare,. Questa responsabilità include tutti gli esseri umani che abitano il pianeta, gli animali e le piante.
Vivere in complementarietà –
Vivere Bene è dare la priorità alla complementarietà, questo significa che tutti gli esseri viventi sul pianeta si relazionano l’uno con l’altro. Nelle comunità, il bimbo è complementare al nonno, l’uomo alla donna, etc… In uno dei suoi esempi, David Choquehuanca specifica che l’uomo non deve uccidere le piante perché esse sono fondamentali per la sua esistenza e lo aiutano a sopravvivere.
Equilibrio con la natura -
Vivere Bene è condurre una vita in equilibrio con tutti gli esseri viventi della comunità. La giustizia, come la democrazia, è considerata escludente perché prende in considerazione esclusivamente le persone dentro una comunità e non quello che è più importante, cioè la vita e l’armonia dell’uomo con la natura. E’ per questo che Vivere Bene aspira a realizzare una società equa e senza esclusioni.
Difendere la identità -
Vivere Bene è dar valore e recuperare la propria identità. In questo nuovo modello, l’identità di un popolo è molto più importante che la stessa dignità. L’identità implica il godere pienamente di una vita basata su valori che hanno resistito da più di 500 anni (dalla conquista spagnola) e che sono stati ereditati dalle famiglie e dalle comunità che hanno vissuto in armonia con la natura e con il cosmo. Uno degli obiettivi principali del Vivere Bene è riprendere l’unità di tutti i popoli.
Il Ministro di Relazioni Estere, David Choquehuanca, spiegò che saper mangiare, bere, danzare, comunicare e lavorare sono alcuni degli aspetti fondamentali.
Accettare le differenze -
Vivere Bene è rispettare le somiglianze e le differenze tra gli esseri che vivono sullo stesso pianeta. Va molto più in là del concetto della diversità. “Non c’è unità nella diversità, c’è solo somiglianza e differenza, perché quando si parla di diversità si parla solo delle persone” dice il Cancelliere. Il nuovo paradigma sottolinea che gli esseri somiglianti o differenti non devono mai farsi del male.
Dare la priorità ai diritti cosmici -
Vivere Bene è dare la priorità ai diritti cosmici prima che ai Diritti Umani. Quando il Governo parla di cambio climatico si riferisce anche ai diritti cosmici, assicura il Ministro delle Relazioni Estere. Per questo il Presidente (Evo Morales) dice che è più importante parlare dei diritti della Madre Terra piuttosto che parlare dei diritti umani.
Saper mangiare –
Vivere Bene è saper alimentarsi, saper combinare il cibo adeguato durante le stagioni dell’anno (alimenti secondo l’epoca dell’anno). Il Ministro delle Relazioni Estere, David Choquehuanca, spiega che questo tema deve affrontarsi in base alla pratica adottata dai nostri antenati che si alimentavano di un unico prodotto durante tutta una stagione. Commenta anche che alimentarsi bene garantisce la salute.
Saper bere -
Vivere Bene è bere alchool con moderazione. Nelle comunità indigene ogni festa ha un suo significato e l’alchool è presente nelle cerimonie, ma si consuma senza esagerare e senza fare del male a nessuno. “Dobbiamo imparare a bere, nelle nostre comunità celebravamo feste relazionate alle epoche stagionali. E’ molto diverso da recarsi in un locale e avvelenarsi di birra e uccidere i nostri neuroni.”
Saper danzare –
Vivere Bene è saper danzare, non semplicemente saper ballare. La danza si relaziona con alcuni atti concreti come la semina o il raccolto. Le comunità continuano ad onorare con danza e musica la Pachamama soprattutto durante le epoche agricole; nelle città le danze originarie sono considerate come espressioni folcloriche. Nel nuovo paradigma si rinnoverà il vero significato della danza.
Saper lavorare –
Vivere Bene è considerare il lavoro come una festa. “Il lavoro per noi è felicità” dice David Choquehuanca che sottolinea che a differenza del capitalismo dove si paga per lavorare, nel nuovo modello dello Stato Plurinazionale, si riprende il pensiero ancestrale che considera il lavoro come una festa. Esso è una forma di crescita, per questo nelle culture indigene si lavora sin da piccoli.
Riprendere il abya laya –
Vivere Bene è promuovere che i popoli si uniscano in una grande famiglia. Per il Ministro questo implica che tutte le regioni del paese si ricostituiscano in ciò che ancestralmente era considerata una grande comunità. “Questo deve essere esteso a tutti i paesi, noi vediamo buoni semi in tutti quei capi di stato che desiderano unire i popoli e ritornare a formare l’ Abya Laya che siamo stati.
Rincorporare la agricultura –
Vivere Bene è incorporare l’agricoltura alle comunità. Parte di questo nuovo paradigma del nuovo Stato Plurinazionale sta nel recuperare le forme di vita in comunità, come il lavoro della terra, coltivando prodotti che coprano le necessità basiche per il sostentamento.
Verranno devolute le terre alle comunità in maniera che generino economie locali.
Saper comunicare –
Vivere Bene è saper comunicarsi. Nel nuovo Stato Plurinazionale si pretende ripristinare la comunicazione che esisteva nelle comunità ancestrali. Il dialogo è il risultato di questa buona comunicazione che menziona il Ministro. “Dobbiamo imparare a comunicare come lo facevano i nostri padri che riuscivano a risolvere i conflitti che si presentavano, non dobbiamo perdere questa capacità”. Il Vivere Bene non è “vivere meglio” come propone il capitalismo. Tra i principi che sostengono lo Stato Plurinazionale troviamo il controllo sociale, la reciprocità e il rispetto per la donna e per l’anziano.
Controllo sociale -
Vivere Bene è realizzare un controllo obbligatorio tra gli abitanti di una comunità. “questo controllo è diverso da quello proposto dalla Partecipazione Popolare, che fu rifiutato (da alcune comunità) perché riduce la vera partecipazione delle persone” disse Choquehuanca. Nei tempi antichi “tutti si incaricavano di controllare le funzioni che realizzavano le loro principali autorità”.
Lavorare in reciprocità –
Vivere Bene è riprendere la reciprocità del lavoro nelle comunità. Nei popoli indigeni questa pratica si denomina ayni, che significa restituire in lavoro l’aiuto prestato da una famiglia in una attività agricola, come la semina e il raccolto. “Questo sarà uno dei principi o codice che ci garantirà l’equilibrio davanti ai tempi della grande siccità” spiega il Ministro di Relazioni Esteriori.
Non rubare e non mentire –
Vivere Bene è basarsi nel ama sua y ama qhilla (non rubare e non mentire, in lingua quechua). Questo è uno dei precetti inclusi nella nuova Costituzione Politica dello Stato e che il Presidente promise di rispettare. Per il Ministro è fondamentale che dentro le comunità si rispettino questi principi per raggiungere il benessere e la fiducia dei suoi abitanti. “Questi sono codici che si devono rispettare per poter vivere bene nel futuro”.
Proteggere i semi -
Vivere Bene è proteggere e conservare i semi affinché nel futuro si eviti l’uso di prodotti transgenici. Il libro “Vivere Bene, una risposta alla crisi globale”, della Cancelleria della Bolivia, specifica che una delle caratteristiche di questo nuovo modello è di preservare la ricchezza ancestrale agricola con la creazione di banche di semi che evitino la utilizzazione di prodotti transgenici per incrementare la produttività, poiché si dice che questa miscela a base di chimici danneggia e uccide inesorabilmente i semi millenari.
Rispettare la donna -
Vivere bene è rispettare la donna, poiché ella rappresenta la Pachamama, la Madre Terra che possiede la vita e cura tutti i suoi frutti. Per questa ragione, dentro le comunità, la donna è valorizzata ed è presente in tutte le attività che si occupano della vita, dei bambini, l’educazione e la vitalità della cultura. Coloro che abitano le comunità indigene danno valore alla donna come base dell’organizzazione sociale poiché è lei che trasmette ai suoi figli la conoscenza della sua cultura.
Vivere Bene e NON meglio -
Vivere Bene è differente di vivere meglio come lo descrive il capitalismo. Per il nuovo paradigma dello Stato Plurinazionale, vivere meglio si traduce in egoismo, disinteresse per gli altri, individualismo e solamente pensare al lucro. Esso considera che la dottrina capitalistica spinge allo sfruttamento delle persone per arricchirsi in pochi, mentre il Vivere Bene suggerisce una vita semplice che mantenga una produzione equilibrata.
Recuperare le risorse –
Vivere Bene è recuperare la ricchezza naturale del paese e permettere che tutti possano beneficiarsene in forma equilibrata ed equa. La finalità della dottrina del Vivere Bene è anche di nazionalizzare e recuperare le imprese strategiche del paese per realizzare equilibrio e convivenza tra gli uomini e la natura in contrapposizione a uno sfruttamento irrazionale delle risorse naturali. “Prima di tutto c’è la natura” afferma il Ministro.
Esercitare il potere –
Vivere Bene è costruire, dalle comunità, la reggenza delle comunità nel paese. Questo significa secondo il libro “Vivere Bene come risposta alla crisi globale” che si raggiungerà il comando del paese attraverso il consenso comunale e si costituirà la unità e la responsabilità a favore del bene comune, senza che nessuno manchi. E’ in questo contesto che si costituiranno le comunità e le nazioni per creare una società sovrana che si amministrerà in armonia con l’individuo, la natura e il cosmo.
Far buon uso dell’acqua –
Vivere Bene è distribuire razionalmente l’acqua e goderne in maniera corretta Il Ministro delle Relazioni Estere commenta che l’acqua è il latte degli esseri che abitano il pianeta. “Abbiamo tanto, risorse naturali, acqua... La Francia, per esempio, non ha la stessa quantità di acqua e di terra che ha il nostro paese, ma vediamo che non esiste nessun Movimento Senza Terra, così che dobbiamo valorizzare ciò che abbiamo e preservarlo più che possiamo, questo è Vivere Bene.
Ascoltare gli anziani –
Vivere Bene è leggere le rughe degli anziani per poter riprenderne il cammino.
Il Ministro spiega che una delle principali fonti di conoscenza sono gli anziani delle comunità che conservano le storie e le abitudini che col passare degli anni vengono dimenticate. “I nostri antenati” menziona” sono biblioteche che seguono il cammino, sempre dobbiamo imparare da loro.”. Ecco perché gli anziani sono rispettati e consultati nelle comunità indigene del paese".

L’eccellenza italiana

La base spaziale italiana in Kenya, gioiello tecnologico di un’Italia da non buttare…
(Fonte: Il Giornale) a cura di Roberto Di Ferdinando